A quattro, a tre, a cinque, anche a sei come nella sfida di Coppa Italia contro il Napoli persa ai rigori dopo l’1-1 dei novanta minuti regolamentari. Lo schieramento difensivo del Cagliari in questa prima parte di stagione ha subito diverse variazioni, portando a discussioni – addetti ai lavori e platea social – con una conclusione quasi unanime: la difesa a tre (o più spesso a cinque) è il problema dei rossoblù di Fabio Pisacane. Un club che, storicamente, ha reso meglio con la linea a quattro e che, da qualche anno a questa parte, ha seguito il trend della Serie A, cambiando vestito e passando spesso e volentieri al modulo difensivo che è ormai per distacco il più utilizzato nel campionato italiano.
Falso problema
C’è un errore alla base, almeno secondo chi scrive, nel valutare le prestazioni del Cagliari partendo dal tema dello schieramento difensivo. Intanto perché la questione “storica” nasce da un presupposto che non considera l’evoluzione del calcio. In seconda battuta, non per importanza, perché non si può non tenere a mente che di fronte ci sono avversari con le loro strategie e le loro caratteristiche. E nasce da quest’ultimo aspetto la ragione dietro lo schieramento che vede il Cagliari giocare spesso a cinque in difesa. In un calcio come quello italiano che, ormai da anni, predilige nella fase di possesso un 3-2-5 (o 2-3-5) che punta all’occupazione orizzontale completa della linea offensiva con cinque elementi. Si è visto, ad esempio, contro la Juventus, con la squadra di Luciano Spalletti che oltre al trio offensivo Yildiz-Vlahovic-Conceicao portava in avanti Kostic e McKennie. E così il Como (con Valle, Diao, Addai, Paz e Morata) e, praticamente, quasi tutte le avversarie affrontate dai rossoblù. Diventa quindi complesso immaginare un Cagliari che difende in inferiorità numerica, con una linea a quattro di fronte a un attacco a cinque. Una scelta quasi automatica di disposizione, obbligata per certi versi, che rende il tema (o il problema) della retroguardia a cinque un falso problema. O, meglio, non IL problema. A fare la differenza, infatti, non sono tanto il come si difende e il numero di difendenti, quanto l’attitudine, la mentalità, quello che accade quando la palla è tra i propri piedi e non quando è in possesso degli avversari. Le scelte individuali (intese come uomini scelti per un determinato compito o posizione), il numero di giocatori che partecipano alla fase offensiva, lo sviluppo del gioco, quale domanda porsi tra “come possiamo fermare gli avversari?” e “come possiamo metterli in difficoltà?”. Ed è qui che si arriva al centro del discorso, al vero problema attuale del Cagliari e di Pisacane, a quali siano gli aspetti da migliorare. Perché se si sbaglia il focus anche le risposte che si trovano diventano errate e la crescita possibile si blocca inevitabilmente.
Cambio di passo
Si può giocare a cinque, anzi, forzati da come attaccano quasi tutte le squadre di Serie A si può dire che si deve giocare a cinque. Quello che cambia, però, è con quali interpreti (e dunque con quali caratteristiche) si vuole sviluppare la propria strategia. Perché c’è una linea a cinque con due esterni di spinta, c’è quella con uno più offensivo da una parte e uno più difensivo dall’altra, c’è quella con due “quinti” che di mestiere sono più difensori che terzini o terzini più che centrocampisti e, infine, c’è quella con proprio un centrocampista che si adatta scivolando come “quinto” da una parte e un esterno puro dall’altra. Tanti abiti da poter scegliere a seconda della serata, insomma. In un Cagliari che con Pisacane ha comunque optato per la linea a cinque in non possesso, ma che si è trasformata (in praticamente ogni gara) in linea a quattro in quella di possesso. Con Obert scelto quasi sempre come quinto che diventa terzino, con Palestra dall’altra parte che diventa esterno di centrocampo, con Zappa che da braccetto completa la difesa a quattro a destra, con Folorunsho (o chi per lui) che diventa quasi ala sulla corsia mancina. La bilancia che cerca l’equilibrio ha finora visto il piatto dell’attenzione pesare più di quello dell’essere propositivi, con l’esempio dell’ultima sfida contro la Juventus a diventare il riassunto perfetto. Una squadra prevedibile, asimmetrica verso destra (Palestra) e che non incute paura sul lato opposto. Una squadra che permette all’avversario di turno di avere la consapevolezza che uno dei quinti non attaccherà, lasciando così campo all’aggressività del diretto avversario sulla fascia. Così come il cosiddetto braccetto non diventerà un centrocampista aggiunto, ma resterà un difensore vero e proprio pronto a difendere e quasi mai a sorprendere attaccando. Una squadra che ha rinunciato alla tecnica in mezzo al campo per inserire fisicità e intensità, con il risultato di chiudere gli spazi, magari recuperare il pallone, ma diventando scolastica e poco efficace una volta acquisito il possesso. In questo senso il pareggio contro il Genoa è la gara che racchiude ancora meglio la difficoltà del Cagliari che non vince da settembre. Da una parte Martín e Norton-Cuffy sulle fasce, due giocatori di spinta e utilizzati prima da Vieira anche come ali. Dall’altra Palestra (dirottato a sinistra per contrastare Norton-Cuffy e non per preoccupare Martín sul alto opposto) e Felici (offensivo), ma con un’idea di massima atta a modellarsi sull’avversario più che a fare in modo che avvenisse il contrario.
Contro la paura
La soluzione non è semplice, Pisacane per primo è in una fase di adattamento a una categoria nuova, di per sé un giovane come lo sono tanti tra quanti scendono in campo. Ma come i vari Palestra, Esposito, Borrelli (tra gli altri) hanno nella freschezza e nell’assenza di paura la loro forza, così anche l’allenatore rossoblù dovrà giocoforza andare a caccia dell’agognato equilibrio togliendo qualche paura di troppo e senza eccedere all’opposto. Partendo sì dalla difesa, anche a cinque se richiesto dalla situazione, ma con interpreti che possano dare maggiore spinta. La crescita di Idrissi può regalare qualcosa in più e far preoccupare il Celik di turno (prossimo avversario) piuttosto che preoccuparsi con Obert del turco, l’esterno alto magari abbassarsi meno di quanto spinga (Felici, Folorunsho), il centrocampo non puntare solo sulla fisicità ma anche sulla tecnica, con l’esperimento positivo di Gaetano come secondo play abbandonato senza ragioni note. Infine l’attacco, con Esposito sì libero di svariare partendo dall’esterno, sì attento ad aiutare la fase di non possesso, ma più vicino a Borrelli perché, in fondo, la difficoltà offensiva si può curare avvicinando maggiormente alla porta chi la porta la vede. C’è infine un altro aspetto che è quello della costanza delle scelte. Coinvolgere tutti gli elementi della rosa è un bene, ma non sempre e comunque. E, soprattutto, cambiare compiti e strategia a seconda della partita una necessità per una squadra che lotta per la salvezza, ma non un dovere da compiere senza se e senza ma. Non è un caso che Folorunsho, Gaetano, anche Esposito prima che si sbloccasse siano i giocatori che abbiano da una parte sofferto nel rapporto attese-prestazioni e, dall’altra, quelli che sono stati più “spostati” da una gara all’altra. Senza dimenticare l’aspetto mentale, con un’idea da seguire che porterebbe stabilità e consapevolezza, creerebbe delle zone di comfort individuali che aiuterebbero anche il collettivo. Perché, in fondo, non è un caso che finora a pagare dazio siano stati quei giocatori che avrebbero dovuto trascinare la squadra, mentre i più brillanti quelli che con meno limiti mentali (i giovani, appunto) hanno messo in campo prestazioni sopra le aspettative. Le difficoltà, insomma, si possono superare in due modi: chiudendosi nella paura e sperando che gli episodi ti aiutino oppure, ed è questa la speranza, con il coraggio di chi ha capito la strada da prendere e la segue senza preoccuparsi delle conseguenze.














