“In questa conferenza proviamo a chiudere la scorsa stagione per poi pensare al futuro e alla ripartenza: lo sport, purtroppo presenta anche questi lati crudeli e presenta la possibilità di rifarsi e ricostruire”. Così parlava a inizio giugno il direttore generale del Cagliari Calcio Mario Passetti nell’ormai famosa conferenza stampa a inizio giugno con il diesse Stefano Capozucca. E allora se bisogna rifarsi, rifarsi in primis il look può essere un’ottima soluzione.
Urge fare una premessa fondamentale: gli accordi di sponsorizzazione e fornitura del materiale tecnico in un club professionistico vengono sempre siglati mesi prima dell’effettiva comunicazione al pubblico. Del resto, il passaggio da Adidas a EYE Sport, avvenuto ufficialmente nei giorni scorsi, ve lo anticipammo già ad aprile. È facile immaginare come i primi contatti tra le parti siano avvenuti già mesi prima e non è di certo una decisione post retrocessione in Serie B: nessuna cartina di tornasole del “ridimensionamento”, teoria circolata tra social e bar sport rossoblù. Detto ciò, cosa possiamo trarre dal passaggio dalla multinazionale tedesca alla più piccola azienda sarda? Facendo un veloce rewind possiamo constatare che sebbene in società a livello manageriale la parte sportiva e la parte dedita al marketing viaggino su due binari quasi paralleli, aspettative e risultati quasi si rispecchiano.
Da Macron ad Adidas
Torniamo a luglio 2020: il club di via Mameli allora decise di troncare il rapporto ancora in essere con Macron per firmare un contratto biennale senza intermediari col colosso delle tre strisce. Una scelta costosa economicamente, tra le penali dovute all’azienda bolognese a un nuovo contratto non troppo difforme da quello precedente, né duratura, ma effettuata con l’ambizione di ripagare facilmente l’investimento grazie al prestigio che Adidas poteva garantire. Posto che anche Macron è diventata negli anni un brand internazionale con decine di club che disputano le coppe europee – è il marchio che veste la stessa Uefa –, è innegabile che tifosi e sponsor che vorrebbero affiancare la propria immagine a una maglia griffata, si facciano maggiormente attrarre dall’aura di un marchio iconico della moda sportiva. Allora il Cagliari puntò quindi anche a livello di brand identity a quel salto di qualità, lo sbarco in una dimensione europea. Ma ben presto si palesò, anche nel lato commerciale, quel “Vorrei ma non riesco” o quella filosofia delle “figurine”, l’apparenza senza sostanza. Va spiegato infatti che Adidas per le sponsorizzazioni ha un business plan a tre livelli: dall’élite che racchiude pochissimi selezionati top club (Real Madrid, Juventus…) a cui si offre un servizio di produzione e di vendita personalizzato a livello globale, poi il premium con una decina di club prestigiosi (Ajax, River Plate…) a cui è garantita la vendita parziale a livello globale e infine lo standard, in cui tra un centinaio di club c’era il Cagliari. Cosa vuol dire ciò? Nessuna vendita a livello internazionale e personalizzazione dei prodotti molto limitata.
Prodotti da catalogo
Il riscontro avvenne già dalla presentazione dei primi prodotti, dove si percepì la poca attenzione dei tedeschi: si va dalle maglie da catalogo ritrovabili anche in altri club dello stesso livello, come la gialla e la bianca della prima stagione a personalizzazioni frettolose e maccheroniche, si direbbe con disinteresse, anche nella maglia home, con una versione quasi all red con annesse estranee maniche bianche, o all blue dell’ultima stagione. Episodio curioso anche quello dell’omaggio all’Uruguay, emblema di questa collaborazione: il “vorrei” è l’intenzione concettuale sapiente di commemorare la propria storia, ma il “non riesco” sta nella relazione ingessata tra club e azienda (leggasi impossibilità anche nel solo progettare dei pantaloncini neri come divisa della Celeste vorrebbe) e il risultato è diventato un banalissimo kit standard. Se poi ci si aggiunge il carico grottesco della prevedibile rottura totale con gli uruguagi stessi, allora il disastro è completo. Nel mezzo un campionario di merchandising scarno con poca scelta tra felpe e giacche in termini di numero e di personalizzazione, di fatto prodotti generici Adidas con l’aggiunta del logo societario. A tutto questo bisogna aggiungere l’esito sportivo. Come abbiamo spesso ripetuto più volte in questa sede, l’iconicità di una maglia calcistica è data anche dai risultati, non solo dalla griffe: è innegabile che la già mediocre collezione biennale sia stata definitivamente affossata dai disastrosi risultati sul campo e le maglie Adidas del Cagliari verranno per sempre ricordate come quelle del periodo (fino ad ora) più nero dell’era Giulini. Si può concludere che lo step in avanti sperato si è rivelato un deciso inciampo.
Fiducia al marchio isolano
Per il 2022 il club rossoblù ha deciso di ripartire da EYE Sport, marchio della Double A srl di Alessandro Ariu. Un’azienda giovane, ambiziosa e soprattutto sarda, parametri che perlomeno dalle dichiarazioni iniziali sembrano gli stessi per quanto riguarda la parte sportiva. A differenza di Adidas, il Cagliari per EYE Sport sarà in cima alla piramide, il suo club di punta, e del resto lo stesso Ariu pochi anni fa raccontò che arrivare a vestire la più importante formazione dell’isola sarebbe stato prima di tutto un sogno, oltre che un suo obiettivo a lungo termine. I 5 anni di contratto sono poi garanzia di un progetto di ampio respiro che permetterà una reale collaborazione, come del resto annunciato nel comunicato della società. Cosa aspettarsi da EYE Sport? Sicuramente la chiave sarà la comune sardità, aspetto totalmente assente in Adidas ma carente a dir la verità anche con Macron e con Kappa. Ariu ha preannunciato “prodotti esclusivi cercando di esaltare il sentimento storico, l’orgoglio e l’appartenenza” e c’è da credergli considerando i numerosi lavori prodotti nell’ultimo decennio con la Dinamo Sassari anche sfruttando le collaborazioni con la stessa Regione Sardegna, lavori molto spesso eccellenti, a volte fin troppo folkloristici, ma di sicuro con un chiaro filo conduttore identitario, elemento ritrovabile anche nei kit studiati per l’Olbia Calcio.
I precedenti
I tifosi hanno storto il naso, percependo l’avvicendamento come un downgrade, tuttavia citiamo a titolo d’esempio due precedenti nella storia rossoblù. Il primo è quello di Errea, che realizzò le divise per tre stagioni dal 1993 al 1996, oggi brand internazionale ma quando il contratto venne firmato aveva solo tre anni di vita. Il secondo, ancor più simile a EYE Sport per provenienza e storia incrociata, è quello di A-Line che produsse anch’essa per tre stagioni dopo solo tre anni di vita. Entrambe però, da giovani e ambiziosi marchi, riuscirono a produrre una serie di divise rimaste iconiche, anche grazie ai risultati sportivi, come quelle della stagione in Coppa Uefa e il biennio con Gianfranco Zola. Ora spetta a EYE Sport ripetere la storia, magari seguendo il modello aziendale proprio di Errea, che a Parma, dove è nata, ha pure realizzato la sua fabbrica abbandonando la tendenza delle produzioni a basso costo di manodopera del sudest Asiatico. Sarebbe la ciliegina sulla torta di un vero progetto glocal e con reali ricadute sull’Isola. Al club rossoblù, invece, toccherà il compito di essere coerente con l’immagine scelta: se ciò avverrà si potrà dire che avrà compiuto la prima vera azione verso la tanto menzionata rifondazione.
Francesco Aresu