Comunque vada sarà un (in)successo potrebbe essere il titolo della stagione 2020-2021 del Cagliari. La salvezza un traguardo da minimo sindacale, fondamentale dal punto di vista economico e sportivo, ma che anche se dovesse essere raggiunto, oltre alla legittima felicità per la permanenza in Serie A, darebbe ben poco da festeggiare.
Verso un nuovo anno zero – L’obiettivo dichiarato da parte della società rossoblù, non da quest’anno ma ormai da qualche stagione, è quel decimo posto che è si è confermato essere ancora una volta una chimera. È scontato che la salvezza rivesta un’importanza inquantificabile, ma per una squadra che ambiva a ben altre posizioni di classifica oltre al sospiro di sollievo resterebbe ben poco. Una rosa di livello ben più alto di quanto dica la classifica e che per quanto ricca di punti deboli resta imparagonabile a quella di quasi tutte le concorrenti per la permanenza nella massima serie. La responsabilità del fallimento – perché già oggi si può definire fallimentare la stagione rossoblù a prescindere da quel che sarà il risultato finale – è normalmente divisa tra società, allenatore e giocatori. “Tutti colpevoli, nessuno colpevole” si direbbe in politica, ma non è questo il caso, anzi. Perché se gli errori di norma andrebbero divisi in parti uguali, una delle tre parti in causa potrebbe essere definita “più uguale” delle altre.
Allenatori, giocatori e… – I calciatori hanno reso meno di quanto atteso, Di Francesco è stato l’artefice delle difficoltà tecniche e tattiche, Semplici ha provato a ribaltare la situazione riuscendoci soltanto in parte. Il tecnico ex Spal non è ovviamente sul banco degli imputati, mentre a salirci dovrebbe essere più di ogni altro Tommaso Giulini. La confusione delle scelte è racchiusa dall’ennesimo pollice verso alla parola progetto. Così come con Maran, con Di Francesco Giulini ha prima scelto, poi difeso strenuamente e infine abbandonato l’allenatore di turno. Un modus operandi che si ripete ciclicamente e che non può che avere l’unico comune denominatore come principale responsabile degli sbagli. Perché, in fondo, cambiano giocatori, cambiano tecnici, cambiano perfino direttori sportivi, ma alla fine il Cagliari in piena primavera si ritrova sempre e comunque con l’acqua alla gola, in una battaglia nelle retrovie della quale non avrebbe dovuto far parte.
Emozioni assenti – Tommaso Giulini ha investito, su questo ci sono pochi dubbi. Non solo nella ristrutturazione di una società che è passata dall’essere una sorta di bottega di quartiere a boutique chic con arie da multinazionale. Come dimenticare poi i lavori di ristrutturazione e costruzione ex novo ad Asseminello, insieme ai crescenti risultati arrivati dal settore giovanile tutto. I giocatori giunti dopo la cessione di Barella all’Inter, infine, sono lo specchio di cifre reinvestite senza badare troppo al sodo. Insomma, al presidente rossoblù non si può certamente rimproverare di avere chiuso la cerniera della borsa. Il problema però è il come ha speso, non tanto nelle scelte quanto nell’aspetto strutturale delle stesse. Il Cagliari manca di una divisione dei compiti propria delle società di successo: le parti sembrano interagire fino a un certo punto, ma alla fine a decidere su tutto e tutti è sempre e solo Giulini. Il direttore sportivo è stato a lungo più una facciata che un ruolo realmente operativo, con l’allenatore che più che un manager diventa colui che deve mettere insieme pezzi che non combaciano e prendersi sulle spalle tutte le responsabilità quando i risultati non rispondono alle attese. Giulini, in sostanza, è sempre parso come un patron foriero di novità, guida di una società moderna e che guarda al futuro, ma che quando si tratta dell’aspetto sportivo resta ancorata al passato, con la figura di un presidente padre-padrone che non riesce a demandare, o non vuole, a chi ha maggiori conoscenze tecniche ciò che concerne il calcio vero e proprio.
Disamore – In questo modo è evidente il sempre più ampio distacco tra la proprietà e la piazza. Se da un lato un Cagliari a gestione “familiare” lasciava a desiderare su numerosi aspetti e sembrava non avere un futuro nel calcio globalizzato contemporaneo, dall’altra nel passaggio a una società più moderna sembra essere stata smarrita la passione. I calciatori sono figurine da prendere e scambiare, ma soprattutto i risultati sportivi non accendono alcuna scintilla. Anzi, anche nelle sconfitte si può mostrare attaccamento e vitalità, smuovere sentimenti e stringere ancora più forti i legami, ma il Cagliari delle ultime stagioni appare più un estraneo che una terra, un popolo, una squadra. Attenzione, guardare con nostalgia al passato sarebbe un errore tanto quanto quello di accettare indistintamente il presente. Resta però, a bocce ferme, la sensazione di una proprietà concentrata più sull’aspetto prettamente finanziario che su quello meramente sportivo.
È difficile non cadere nella retorica della nostalgia dei bei tempi andati, anche perché i bei tempi sono resi tali dal passare del tempo che cancella le ferite e lascia solo l’aspetto positivo. Lasciando da parte ciò che è stato prima di Giulini, nelle stagioni che dal 2014 al 2021 hanno visto in sella l’attuale presidente rossoblù i risultati parlano da soli. La vittoria della Serie B con Rastelli in panchina e il successivo undicesimo posto restano gli apici di una proprietà che per il centenario sognava di fare il botto (e per un po’ ci era pure riuscita), ma per il resto ha raccolto soltanto delusioni. Il rapporto tra aspettative e realtà è clamorosamente in negativo: aspettative che peraltro sono state create spesso e volentieri da proclami proprio di Giulini più che da una piazza che ha fame di risultati, ma che non ha mai preteso altro che carattere ed emozioni. D’altronde, il Cagliari è da quasi trent’anni lontano dal palcoscenico europeo, ma in questo lungo periodo l’ambiente ricorda compagini che non hanno raggiunto chissà quali obiettivi, ma davano modo di identificarsi. Tommaso Giulini dovrebbe, in sostanza, decidere cosa fare da grande. Il Cagliari è un asset finanziario o è prima di tutto una squadra di calcio che deve regalare emozioni attraverso il prato verde? Una cosa non esclude l’altra, ovviamente, ma non ci sono dubbi su quale sia la più importante per l’ambiente. Poveri sì, ma con dignità.
Matteo Zizola