Se la salvezza fosse una partita di tennis la sconfitta del Cagliari contro il Genoa sarebbe il primo match point fallito. Restano altri quattro scambi per poter vincere la battaglia, ulteriori fallimenti – partendo dalla prossima gara di fronte al Verona – restringerebbero le possibilità di portare a casa l’obiettivo.
Come in una favola
La gara del Ferraris ha mostrato un Cagliari difficile da valutare. Guardando alle sole occasioni gli uomini di Mazzarri avrebbero meritato almeno il pareggio. Se però l’occhio si sposta sull’immagine complessiva della partita, allora è complicato trovare aspetti positivi nella gara vista a Genova. Una prestazione che non ha rispecchiato i proclami e che ha per certi versi ricalcato quelle di tutti gli scontri diretti giocati in questa stagione. L’aspetto tecnico è stato quello più preoccupante, con il 52% di passaggi riusciti a testimoniare l’assenza di qualità. Ma a far paura è soprattutto quello psicologico, vecchio problema in casa Cagliari che vede in Mazzarri solo l’ultimo di una lunga serie di protagonisti. Le parole del tecnico rossoblù nel post partita non fanno altro che alimentare la distanza tra realtà e percezione della stessa. Dal rigore richiesto su Keita al “meritavamo i tre punti”, fino al “ogni tanto ci sta un passo falso” arrivato dopo una sola vittoria nelle ultime sette partite. Il Cagliari avrebbe bisogno di realismo ma punta sulle favole, una costante che unisce la squadra, il proprio allenatore e la società.
Perseveranza
La sconfitta di Genova è stata lo specchio perfetto del club rossoblù nella sua interezza. La differenza tra proclami e prova dei fatti è talmente ampia da descriversi da sola. Il ricadere negli stessi errori senza mai imparare dal recente passato che unisce il campo con quanto accade fuori dal campo. E se, ancora una volta, il Cagliari si ritrova a flirtare con il baratro nonostante le tante parole, giocare con il fuoco può diventare pratica estremamente pericolosa. Il gol negli ultimi minuti, lo scontro diretto mancato, la gestione della partita dal punto di vista tecnico e tattico, i cambi, i palloni lunghi con Keita in campo e Pavoletti dentro quando il contropiede può diventare arma letale. Tutti elementi che si ripetono con una costanza quasi scientifica, esattamente come si ripetono con altrettanta costanza le mancanze di una società brava a predicare bene tanto quanto a razzolare male.
Luna e dito
La colpa è sempre di qualcun altro. Dell’arbitro o della sfortuna nel caso di Walter Mazzarri, dell’allenatore di turno o di giocatori poco attaccati alla maglia nel caso della società. Il tema della fedeltà ai colori rossoblù, peraltro, apre un altro tema che è strettamente connesso con quanto visto a Genova. A proposito di predicare bene e razzolare male. Perché la tendenza a raccogliere più nomi che giocatori non è una novità in casa Cagliari, ma non è l’unico problema. L’assenza di leader che possano trascinare il gruppo nei momenti di difficoltà è evidente. Manca una spina dorsale che più che garanzie tecniche dia garanzie psicologiche. I capopopolo del gruppo rossoblù restano Ceppitelli, Pavoletti e soprattutto Joao Pedro, senza dimenticare l’attaccamento di Deiola sul quale non ci possono essere dubbi. Poi però ci sono i fatti, quelli di una società che proprio ai leader del gruppo riserva un trattamento speciale, al contrario. E nei momenti di difficoltà ogni dettaglio può incidere e se certe dinamiche si ripetono più che alla sfortuna o a errori altrui bisognerebbe guardare a se stessi.
Peccato originale
Quando i trascinatori si contano sulle dita di una mano le scelte possibili sono due. Aumentare il peso specifico dello spogliatoio intervenendo sul mercato oppure sostenere senza se e senza ma chi è già dentro il gruppo. La prima opzione è stata messa da parte, soprattutto quando il tira e molla per riportare Radja Nainggolan in Sardegna è finito in una bolla di sapone non senza accuse contrapposte. Pensare che nella costruzione di una squadra conti soltanto l’affidabilità in campo e non fuori dal campo è tanto ingenuo quanto sbagliato. Perso il Ninja – più per propria volontà che per sfortuna – non restava che rinsaldare il legame con chi può trascinare lo spogliatoio nelle tempeste. Invece la stagione è andata avanti con una gestione dei leader che si potrebbe definire approssimativa. L’idea, nemmeno troppo nascosta, è che si utilizzi il cuore non per premiare chi lo concede, ma come grimaldello per trattative al ribasso in nome dell’amore per la maglia. Si possono discutere sul piano tecnico giocatori come Deiola e Ceppitelli, ad esempio, ma è doveroso scegliere tra puntare su di loro o meno. Il centrocampista di San Gavino è stato protagonista di un rinnovo che tardava a venire, nessun aumento sostanziale d’ingaggio da un lato ma richieste fuori mercato di fronte all’interesse del PAOK dall’altro. E alla fine Deiola ha firmato, in nome del cuore. Ceppitelli, dal canto suo, vive ogni stagione con in mano un contratto annuale, un rinnovo basato sul numero di presenze e la chiamata al fronte soltanto in caso di estrema necessità. Poi succede che si va a Genova, il difensore umbro debba sostituire Lovato disputa la sua onesta partita e dopo la sua uscita arriva la confusione nella retroguardia.
Mai abbastanza
Non bastano nemmeno salvezze raggiunte solo e soltanto grazie ai loro gol. Leonardo Pavoletti è stato quasi sempre il salvatore della patria nei momenti importanti. Abbastanza per garantirsi la maglia rossoblù a vita? No, per nulla. Ogni mercato per il centravanti livornese si sono attese offerte, quasi desiderate. Non messo alla porta, ma nemmeno tenuto stretto. La riconoscenza nel calcio ha poco spazio e può essere un’arma a doppio taglio, ma i comportamenti pesano e lasciare i propri trascinatori nel limbo mai una pratica vincente. Chissà cosa sarebbe il Cagliari oggi, ad esempio, se Joao Pedro avesse accettato l’offerta dell’Atlanta in MLS. La società aveva già pronte le penne per le firme di rito, il brasiliano ha detto no grazie ed è rimasto nella sua Sardegna. Ancora una volta i suoi gol non sono mancati, a Genova è stato uno dei pochi a non mollare mai la presa, uno dei pochi se non l’unico a far seguire alle parole della vigilia i fatti della mentalità messa in campo. Eppure del tanto agognato rinnovo nemmeno l’ombra, la trattativa ferma e il giocatore più rappresentativo dei rossoblù appeso a un filo. Una contraddizione che incide e non poco quando i nodi devono venire al pettine, anche perché gli ingaggi elevati non mancano per le stelle sul viale del tramonto che arrivano ogni estate, mentre per chi tira la carretta da anni si cerca la via del risparmio. L’esatto opposto della meritocrazia.
Matteo Zizola