A 74 anni ci ha lasciato il decano del giornalismo sportivo italiano ed erede designato di Gianni Brera non solo per una certa somiglianza fisica, ma soprattutto per il modo di vedere il calcio e lo sport a tutto tondo.
Giornalista de La Repubblica, conoscitore delle dinamiche calcistiche come pochi, penna raffinata, Mura non si limitava soltanto al pallone, ma anzi lo si ricorda anche per i suoi reportage sul Tour de France nei quali univa all’amore per la bicicletta la passione per il vino rendendo il giro un viaggio enogastronomico sportivo unico nel suo genere. Negli anni è diventata famosa la sua rubrica domenicale Sette giorni di cattivi pensieri, un riassunto settimanale degli avvenimenti sportivi e non visti con un’irriverenza e una lucidità che non lo hanno mai abbandonato durante tutta la sua carriera, così come “L’intervista al campionato” con cui presentava la stagione della Serie A ai nastri di partenza.
IL LEGAME CON GIGI RIVA, L’HOMBRE VERTICAL
Come il suo mentore Brera anche Gianni Mura guardava con rispetto totale e quasi venerazione al Cagliari del 1970, quello dello scudetto e dell’epopea dell’hombre vertical Gigi Riva, perché se Brera coniò il soprannome Rombo di Tuono, fu Mura ad usare due parole spagnole per descrivere la statura calcistica e soprattutto umana di Riva. Una delle sue interviste più belle fu proprio al presidente onorario del Cagliari, quando per i suoi 60 anni riuscì a scalfire l’innata riservatezza dell’icona rossoblù, a quasi quarant’anni da quella prima volta nel 1967, quando Mura riuscì a raggiungere Riva per un’intervista in ospedale in cambio di un paio di sigarette. Gianni Mura era figlio di un calcio diverso, non migliore o peggiore, ma uno sport nel quale il giornalismo poteva aggiungere un sorta di epica al pallone, uno sport di soprannomi letterari e che Mura ha provato a mantenere tale anche negli anni dei diritti televisivi e del calcio globale.
L’ANEDDOTO
Chi scrive ha avuto modo di conoscerlo, anche se solo telefonicamente, e già questo aspetto spiega la diversità di un giornalista pronto ad aiutare i giovani e ad avvicinarsi ai suoi lettori. Ci eravamo sfiorati una prima volta quando a 14 anni gli scrissi una lettera su Roberto Baggio, affascinato com’ero dalla definizione di piccolo panda che ne diede in uno dei suoi articoli: la scomparsa del numero dieci di metà anni ’90, Baggio animale calcistico in via d’estinzione, un piccolo panda appunto. Mura chiamò a casa, ma purtroppo io non c’ero: rispose mia madre, così persi l’occasione per parlare con il mio mito giornalistico proprio quando sognavo di fare questo mestiere. Quindici anni dopo, quando preparavo la mia tesi di laurea proprio su calcio e letteratura e i suoi scritti mi passarono tra le mani, decisi di scrivergli di nuovo nella speranza di un aiuto – memore di quella famosa telefonata – e lui, sorprendendomi, mi chiamò al telefono nel giro di pochi minuti: discutemmo del mio lavoro, delle mie idee, mi diede suggerimenti preziosi, mi chiese addirittura di inviargli la bozza e mi aiutò nella revisione, il tutto per spiegare un personaggio che non si limitava a insegnare giornalismo con i suoi scritti, ma era capace di mettersi al livello dei suoi lettori e avvicinarsi a loro come nessun altro.
“E tu con coscienza e scrupolo artigianale (ma io non dimentico tutti i libri che hai in casa) avevi inventato una lingua viva, piena di venature, di rimandi, come uno che aveva letto Runyon ma anche Folengo. Eri nato con l’atletica e il ciclismo, sapevi raccontare gli uomini e le strade”. [Gianni Mura su Gianni Brera]
Matteo Zizola