Dalla nascita della passione per il calcio, fino al modo di intenderlo e ai sogni irrealizzabili. Lunga intervista sul Corriere della Sera per Gianfranco Zola. Di seguito un estratto del dialogo tra l’ex calciatore isolano e Walter Veltroni.
Sulla propria famiglia e sugli inizi
“Vengo da una famiglia molto povera. I nonni lavoravano in campagna e mio padre era aiutante pastore, da noi la principale economia era la pastorizia. Bambini come mio padre vivevano sui monti, accudivano il gregge. Dopo qualche tempo è diventato camionista e poi ha aperto un bar insieme a mia mamma. Mio padre non sapeva neanche cosa fosse un pallone, almeno fino ai trent’anni… Un giorno, credo ne avesse trentatré, degli amici lo portarono a vedere una partita e lui disse “Che cos’è il calcio?”. Ma da quel giorno impazzì per il pallone, diventò dirigente della squadra locale, persino presidente. Quando avevo tre anni mi portava agli allenamenti. Se quegli amici non lo avessero invitato al campo, quel giorno, forse anche la mia vita sarebbe stata diversa, sliding doors. Lui non mi insegnava come calciare la palla, ma mi indicava valori e aveva fiducia in me. Mi ha fatto vedere una strada e mi ha dato la libertà di percorrerla. Penso sia questo il compito dei genitori”
Sul proprio ruolo
“Ci sono dei numeri dieci che sono più portati a creare gioco, sono più bravi nella manovra e altri che sono più finalizzatori, credo che Michel, nella vostra intervista, li chiamasse “nove e mezzo”. Io credo di appartenere di più a questa seconda interpretazione del ruolo. Nelle squadre giovanili ho sempre giocato come attaccante, poi a 18 anni, quando andai alla Torres in serie C, ho fatto invece il centrocampista, offensivo ma centrocampista. E così anche quando sono andato al Napoli. Il passaggio al Parma mi ha riportato davanti, per ragioni tattiche, e in quella posizione ho dato il meglio di me stesso. Forse, quindi sono un “nove e mezzo”, felice di esserlo stato”.
Sul rapporto tra tatticismi e fantasia
“A me nessuno si è mai sognato di dirmi quando avevamo la palla noi, “Vai di qua o vai di là, fai così o fai colì”. Io diventavo matto, quando cercavano di imbrigliarmi. Qualche allenatore ci ha provato, ma non era per me. Io al calcio sapevo giocare solamente in quel modo. Non ero uno sregolato, facevo disciplinatamente il pressing quando gli avversari impostavano il gioco. Ma, quando avevo la palla, volevo essere libero di fare quello che sapevo fare: inventare. Al mio amico Luca Vialli, dicevo: “Tu dimmi come vuoi la palla, poi a come fartela avere ci penso io, non preoccuparti”. Tenevo alla mia indipendenza, al modo in cui cercavo la posizione, al tempo delle mie giocate. Mi dava certezza, sicurezza. Perché era quello che sapevo fare”.
Sul compagno che avrebbe voluto avere
“Gigi Riva. Mi sarebbe piaciuto giocare con lui”.
La Redazione