Materiali, protocolli, squadre, corridori, modi di correre. In sette anni il mondo di ciclismo si è quasi ribaltato, non solo per una pandemia di mezzo che ha cambiato il mondo, ma anche per l’avanzare inarrestabile della tecnologia sulle due ruote e la nascita ed esplosione di alcuni corridori. Un ciclismo sempre più frenetico e globale, come lo era in parte a quei tempi, ma se torniamo indietro esattamente di sette anni, l’attenzione mediatica era totalmente incentrata sulla Sardegna: il 13 luglio 2017 proprio sui Pirenei, dove si trova ora il Tour de France animato dal duello Pogaçar-Vingegaard, la maglia gialla finì sulle spalle di Fabio Aru, che a 27 anni appena compiuti si regalò una Grande Boucle da sogno.
Tappa da Pau a Peyragudes, la prima di quel Tour de France nei Pirenei che vedeva in testa Chris Froome: il britannico della Sky avrebbe vinto quell’edizione e si trovava già al comando, frutto anche della cronometro di apertura di Dusseldorf che aveva delineato l’iniziale classifica con specialisti delle prove contro in tempo e passisti scalatori ai vertici. Gli scalatori puri si trovavano già a inseguire, con il primo snodo sui Vosgi che aveva ricambiato le carte in tavola: proprio su quelle aspre alture, il campione nazionale Fabio Aru aveva trionfato alla Planches des Belles Filles, regalando una delle vittorie più iconiche degli ultimi anni al ciclismo italiano, vuoi per la maglia tricolore dell’Astana sulle spalle, vuoi per la speranza di avere un corridore che si sarebbe giocato la vittoria finale dopo Nibali al Tour de France. Il sardo dopo quel successo era rientrato in classifica, addirittura al terzo posto, guardando con fiducia ai Pirenei. Alla dodicesima tappa il cambio in classifica: Froome andava leggermente in difficoltà sull’ultima altura, e in 350 metri Il Cavaliere dei Quattro Mori aveva guadagnato quanto bastava per appaiarlo momentaneamente in classifica: il terzo posto alle spalle di Bardet e Uran, regalava quei 6″ di abbuono al villacidrese per permettergli di indossare quella maglia gialla, che andava ad arricchire la sua collezione di maglie di leader, entrando così nell’elite di quei tutto sommato ristretto numero di corridori che hanno indossato il simbolo del primato del Giro d’Italia, del Tour e della Vuelta. Una giornata da ricordare per il ciclismo sardo, e poco importa se Aru avrebbe poi perso la maglia due giorni dopo, nella strana frazione da Blagnac a Rodez, dove un “buco” nel finale aveva sfavorito il corridore dell’Astana che perse qualche secondo in favore del keniano bianco che avrebbe riconquistato la maglia gialla per non mollarla più. Il villacidrese terminò quinto poi quel Tour de France, il suo miglior risultato nella corsa gialla e suo ultimo grande risultato in un Grande Giro, prima di approdare alla UAE, maglia con la quale non riuscì a ripetere i fasti dell’Astana.
Matteo Porcu