Leonardo Pavoletti, Alessandro Deiola. Più Cagliari di così non si può. Piaccia o meno. Uomini di mille battaglie, a volte messi ai margini o dati per scontati, ma sempre decisivi nel momento di massimo bisogno nella storia recente dei rossoblù. Due che la Sardegna ce l’hanno dentro, per nascita o per adozione. E nella stagione delle montagne russe cagliaritane non poteva mancare la loro splendida firma che sa di fatto di salvezza, vittoria anche storica dato che a Verona il Cagliari non vinceva da 53 anni e anche allora fu 2-0 con la firma di un certo Gigi Riva. Guarda tu il destino a volte.
Pavoletti è sempre lui
Leonardo Pavoletti meritava un’altra serata come quella del Bentegodi. Ogni volta che qualcuno pensa – “questa volta ha finito, non ha più la forza per essere protagonista per scrivere l’ennesima impresa” – l’attaccante livornese trova energie e lucidità per smentire tutti. Aveva detto qualche settimana fa che l’obiettivo era tornare mvp almeno per una sera e ha fatto qualcosa di più, da uomo maturo qual è ancora prima che da calciatore importante. Ha trascinato letteralmente la squadra su un campo difficile, che non ha mancato di dimostrarsi ancora una volta poco incline alla sportività e alla civiltà con continui buu e cori contro Luvumbo e gli altri calciatori rossoblù. Non solo la rete per Pavoletti ma una prestazione fino al cambio della ripresa da vero leader. Urla, lotta, sportellate, incoraggiamenti, sponde, sacrificio. Nella partita di Pavoletti c’è stato tutto. E a volte si dà per scontato tutto quando sarebbe giusto goderselo. Anche perché un giocatore con una storia di infortuni come quella di Pavoletti, che già ha scritto un paio almeno di momenti storici del club e che con la rete di Bari nei playoff di B per legge si è iscritto nella lista di coloro che dalle parti di Cagliari non potranno essere dimenticati, avrebbe anche potuto dire basta, mollare molto prima. Specie dopo un’annata con pochissimo spazio nonostante i meno infortuni rispetto agli anni precedenti. Invece Pavo è rimasto lì, con il sorriso fuori e la battaglia dentro perché chi si sente ancora giocatore vorrebbe giocare sempre. Ha aspettato il suo momento, tra un’apparizione a un evento sociale o di qualche sponsor e una parola giusta per tutti quando è servita. Poi ha fatto parlare il campo, perché Pavoletti alla fine è sempre lui. “Porti addosso qualche segno, proverò a tirarteli via. Posso solo questo sogno, scusa per la mia fantasia. Giù in platea sedie di legno, gole secche per la sete d’eroi”, canterebbe Ligabue.
Sardo di Sardegna
Da una parte l’uomo delle favole, dall’altra un altro calciatore spesso considerato marginale, criticato ingiustamente e dato anche lui per scontato, Alessandro Deiola. Uno che quando la nave ha ballato tanto un po’ tutti gli allenatori passati per Cagliari negli ultimi anni hanno messo sul ponte a faticare. E lui ha faticato. Sì è preso insulti e attacchi gratuiti, spesso confessando di averne anche sofferto ma di essere cresciuto riuscendo a non dare troppo peso alla cosa. Piaccia o meno con il nuovo rinnovo fino al 2029 sarà l’uomo immagine e spogliatoio del club quando Pavoletti deciderà di dire addio al calcio giocato, o se si farà tentare in estate dal richiamo dell’impresa da scrivere nella sua Livorno (cosa non facile). Un ragazzo sardo di Sardegna Deiola e non verrebbe da descriverlo in altro modo. Per il primo gol stagionale ha aspettato il momento giusto, la sfida all’Hellas poteva essere l’inizio di un pericoloso vortice negativo se affrontata con la mentalità sbagliata e invece il Cagliari ha messo al Bentegodi tutto il carattere che in stagione aveva mostrato solo a tratti. E Deiola anche da subentrato, con solo poco più di 7 minuti giocati, ha dimostrato cosa significhi sentirsi parte di un qualcosa, sentirsi cucita addosso una maglia. Aspetto che in uno sport dove i valori latitano sempre di più fa la differenza più di uno stop sbagliato o di un passaggio mancato.
Alessandro e Leonardo, uomini perfetti per l’impresa nel giorno di sa Die se sa Sardigna, contro tutto e tutti, contro il razzismo e il clima teso di Verona, contro il momento e contro il pregiudizio. Perché non è mai finita finché c’è un cuore che batte e lotta.
Roberto Pinna














