Nella cornice suggestiva del Crai Sport Center, cuore pulsante del centro sportivo del Cagliari Calcio, ci troviamo all’interno della Club House per un incontro speciale. Di fronte a noi, in bella mostra, la Coppa Italia: simbolo di un traguardo storico per la Primavera rossoblù. Abbiamo avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con Alessandro Vinciguerra, capitano della squadra allenata da Fabio Pisacane, protagonista e guida di un gruppo che ha scritto una pagina importante della storia del club.
Alessandro, hai realizzato di essere il primo capitano nella storia del Cagliari a sollevare la Coppa Italia Primavera?
“L’ho realizzato solo dopo qualche giorno, non nel momento esatto in cui ho alzato la coppa. Però sì, essere il primo capitano a riuscirci è sicuramente una grande soddisfazione. Spero che in futuro ce ne siano altri, perché mi auguro che il Cagliari continui a puntare in alto e a conquistare nuovi trofei”.
Avete compiuto un percorso straordinario: Torino, Fiorentina, poi la Juventus e infine la finale a Milano contro il Milan. Qual è il segreto di questa squadra? Perché, soprattutto nell’ultimo periodo, avete raggiunto una continuità e una costanza di rendimento che forse prima erano mancate.
“Penso, prima di tutto, di essere davvero orgoglioso di essere il capitano di un gruppo così, un gruppo fantastico. Siamo molto uniti, soprattutto fuori dal campo, e credo che questa sia la nostra vera forza: sappiamo esserci l’uno per l’altro, sempre. Poi ovviamente c’è anche l’aspetto tecnico e tattico, ma l’unione che abbiamo fuori si riflette dentro il campo. Abbiamo aggiunto entusiasmo, quello che ti dà la spinta nei momenti decisivi. Penso a Zari (Iliev ndr), ad esempio, il nostro portiere: porta un’energia incredibile all’interno del gruppo. Anche questo contribuisce a darci quella mentalità vincente che stiamo dimostrando”.
Negli ultimi tempi vi abbiamo soprannominati ‘Cagliari ammazzagrandi’, perché dopo la vittoria contro la Juventus qui al Crai Sport Center, avete battuto anche il Milan, il Sassuolo, la Fiorentina, e siete riusciti a fermare l’Inter in casa sua. Quanto vi stimola affrontare le cosiddette ‘big’? Vi piace calarvi nei panni di underdog, ovvero della squadra che sulla carta parte sfavorita ma poi spesso sorprende tutti?
“Sì, è vero che le partite contro le big hanno sempre un certo fascino. Sono gare belle da vivere, anche per noi. Però, a dire il vero, scendiamo in campo senza guardare troppo al nome dell’avversario. Che si tratti dell’Inter, del Milan o di squadre in lotta per lo Scudetto, per noi cambia poco. Pensiamo a mettere in campo le nostre potenzialità, a sfruttare le nostre qualità. Alla fine, il vero avversario siamo noi stessi: superare i nostri limiti è l’obiettivo, indipendentemente da chi abbiamo davanti”.
Uno dei segreti di questa squadra, senza dubbio, è anche Fabio Pisacane. È il vostro allenatore e punto di riferimento. Se dovessi descriverlo con tre parole, quali sceglieresti?
“Il mister ci ha trasmesso una mentalità vincente e ha portato tanto entusiasmo all’interno del gruppo. È come un amico per noi, oltre che un allenatore. Poi, certo, il giudizio sul suo lavoro e sulle sue capacità tecniche spetta a voi, ma io posso parlare della persona: è davvero una grande persona. Ci sostiene prima di tutto fuori dal campo, ed è da lì che poi nascono anche i risultati. I risultati, alla fine, sono il frutto di ciò che semini ogni giorno lungo il percorso. Il mister, così come il direttore Muzzi, sono due persone che auguro a ogni calciatore di incontrare nella propria carriera. Non solo per i ruoli che ricoprono nella società, quello lo valuterete voi, ma per ciò che sono come persone. Per questo mi sento fortunato, e come me tutta la squadra si sente fortunata ad averli incontrati”.
Guardandovi da fuori, soprattutto rispetto ad altre squadre — anche alle big di cui parlavamo prima — spesso si nota un aspetto diverso: lì emerge spesso il singolo, il ‘fenomeno’ di turno. Invece da voi si percepisce un gruppo compatto, quasi monolitico, con Fabio Pisacane come punto di riferimento. In campo ci sono più leader, come te, Iliev Arba, Pintus, Cogoni… ma sembra che da voi sia il collettivo a fare davvero la differenza. È così?
“Sì, è proprio così, ed è questa la nostra forza. Io, da capitano — o leader, come dite voi — insieme a ragazzi come Cogoni, Pintus, Arba, abbiamo visto che anche quando qualcuno di noi è fuori, la squadra continua a fare bene. Questo dimostra che nessuno si sente superiore o inferiore agli altri: siamo tutti sullo stesso livello. Quando uno è in difficoltà, gli siamo accanto, lo sosteniamo. Lo stesso fa il mister con noi. Anche nella gestione quotidiana siamo uniti, non esiste la figura del ‘fenomeno’. E se mai dovesse emergere un atteggiamento simile, spetterebbe a me — da capitano — intervenire. Ma la verità è che non è mai successo, e spero non succeda mai, perché siamo davvero un gruppo fantastico”.
Parliamo un po’ più di te, andiamo un po’ indietro anche al tuo arrivo qui in Sardegna, qui a Cagliari. Raccontaci un po’ i primi passi qui a Cagliari.
“Sono arrivato qui a 13 anni, ho iniziato a fare provini con diverse squadre, e poi, a 14 anni, è arrivata la firma con il Cagliari. È stato un grande passo: lontano da casa, lontano dalla mia famiglia, senza sapere cosa mi aspettasse fuori. Ho affrontato tutto da solo, con tutte le paure che una situazione del genere porta con sé. Vivevo in foresteria a Quartu in convitto, che ora è a Cagliari, e anche lì ho imparato tanto. Poi, nell’anno segnato dal Covid, in Under 15 ho giocato 16 partite e fatto 16 gol. Quella stagione è stata una svolta. Da lì è arrivata la chiamata in Primavera, dove ho esordito a 16 anni contro la Roma, con mister Agostini. L’anno successivo ho segnato il mio primo gol in Primavera, a 17 anni: una grande soddisfazione. Poi è arrivato mister Filippi, e durante la sua stagione è subentrato mister Pisacane, in un momento complicato, ma importantissimo: è l’anno in cui ci siamo salvati. Quella salvezza per me ha significato tantissimo, più ancora di qualunque trofeo. È stata la nostra rinascita, da lì abbiamo preso uno slancio che ci ha portati dove siamo oggi. Da quando è arrivato mister Pisacane, ho iniziato anche a segnare con più continuità in Primavera”.
Negli ultimi anni la Primavera è cambiata parecchio, e tu ne sei stato testimone diretto: hai fatto parte di quattro gruppi diversi e hai lavorato con quattro allenatori, dal 2020 in poi. Hai condiviso lo spogliatoio con giocatori come Luvumbo, Obert, Del Pupo, Carboni — tutti ragazzi che oggi sono professionisti. Secondo te, com’è cambiata l’anima di questa Primavera, se è cambiata? Oppure credi che, nonostante tutto, certe cose siano rimaste le stesse?
“Sicuramente quelli che hai citato sono grandi calciatori, oggi tutti professionisti, e lo dimostrano ogni giorno. Era un bel gruppo anche quello: io ero ancora piccolo, ma ho potuto imparare tanto da ognuno di loro. Mi hanno aiutato a crescere, a prepararmi per il futuro. Ogni anno poi ho vissuto esperienze diverse, con compagni e situazioni nuove, e anche il mio ruolo all’interno della squadra è cambiato. All’inizio ero uno dei più giovani, osservavo e apprendevo. Oggi, invece, sono il capitano, quindi ho più responsabilità: devo dare l’esempio, dentro e fuori dal campo. Quando giocavo con Luvumbo, Obert, Kourfalidis non ero certo uno dei veterani, quindi il mio compito era ascoltare, osservare e imparare. Li ringrazio tutti, perché mi hanno insegnato tanto. In particolare Kourfalidis per me è stato un punto di riferimento: raramente mi faceva un complimento, anche quando segnavo bei gol, come contro la Fiorentina, al massimo mi diceva ‘bravo’ e basta. All’inizio non capivo, mi chiedevo il perché. Ora invece lo ringrazio: era il suo modo per stimolarmi, per farmi rimanere con i piedi per terra. È una grande persona e gli sono davvero grato”.
Hai citato il gol contro la Fiorentina, ma per arrivare a questa Coppa ci sono stati anche quei due ‘in fotocopia’ contro Inter e Milan: scatto sulla sinistra, sterzata verso il centro e destro a giro sotto l’incrocio — un vero ‘gol alla Vinciguerra’. È questo il tipo di gol che senti più tuo, quello che ti rappresenta di più?
“Spero di farne altri, perché è sicuramente il tipo di gol che mi piace di più. Certo, se mi arrivasse una palla in profondità e fossi solo davanti al portiere, sarebbe ancora più facile e magari anche più bello, ma quel gol lì — con la sterzata e il tiro a giro — è quello che mi piacerebbe continuare a fare. È un bel gesto tecnico, se va tutto bene, esce un gran gol”.
Abbiamo parlato di questa Coppa Italia vinta a Milano contro il Milan, però tu facevi parte anche dell’altro Cagliari che fece la trasferta nei play-off scudetto a Sassuolo nel 2022: che ricordi hai di quell’esperienza?
“Anche quella partita mi ha insegnato tanto, perché ho cercato di trasmettere al gruppo la voglia di non mollare. Anche quando in finale di Coppa eravamo 2-0 sopra a fine primo tempo, cercavo di dire al gruppo di non fermarsi, perché due gol sono pochi. Ho avuto l’esperienza della semifinale, quando eravamo 3-0 sopra fino al sessantesimo e poi siamo usciti. Quella sconfitta mi ha insegnato molto, perché avevamo lavorato per vincere a tutti i costi. Se guardi la squadra, c’erano giocatori come Luvumbo e Kourfalidis. Avremmo potuto vincerla tranquillamente, ma sicuramente quell’esperienza mi ha lasciato molto. Era bello vincerla, ma questa è la realtà. Mi ha aiutato tanto anche quell’esperienza”.
Hai già dimostrato di avere una mentalità da leader, però ti volevo chiedere: la fascia da Capitano, considerando che sei uno dei giocatori più esperti, visto che sei in squadra da tanti anni, in che modo pensi di essere utile ai tuoi compagni? Nel senso, cosa ti dà in più il fatto di portare la fascia da Capitano sul braccio?
“Penso che, prima di essere un Capitano, bisogna essere disposti a mettersi a disposizione dei propri compagni di squadra. Se c’è un problema fuori dal campo, io sono sempre il primo a preoccuparmi per un compagno, ma non perché sono il Capitano. Già prima di avere la fascia, con Idrissi, ad esempio, siamo praticamente cresciuti insieme. Fin dall’Under 15 siamo stati in stanza al convitto per tre anni e abbiamo fatto quasi lo stesso percorso. Poi, l’anno scorso, fortunatamente, lui ha intrapreso il cammino con i grandi. Già prima di tutto questo, mi sentivo un leader, ma non un leader per stare al centro dell’attenzione, perché io non sono il tipo che ama prendersi la scena quando non è sua. Le cose vanno guadagnate. Io cercavo di aiutare gli altri già dentro di me, mettendo il gruppo prima di tutto. Forse è questo che mi distingue dagli altri. Magari non tutti lo fanno perché non vogliono, ma se non hai questa cosa dentro di te, non puoi farla”.
Hai parlato di Idrissi, che quest’anno sta facendo bene al Modena con la sua prima esperienza tra i ‘grandi’. Il tuo nome è spesso accostato alla prima squadra, e hai già avuto alcune convocazioni, sia l’anno scorso con Ranieri che quest’anno con Nicola. Ti chiedo: pensi di essere pronto per la prima squadra?
“Mi riterrò pronto quando mister Nicola, o chi sarà in futuro, deciderà che è il momento giusto. Apprezzo molto i tifosi, perché, come ho detto, questa Coppa l’abbiamo conquistata anche grazie a loro. Io vivo per avere l’opportunità di confrontarmi con i grandi, magari anche solo per un minuto in campo in Serie A. Quando lo staff e mister Nicola riterranno che sia arrivato il momento, sarò pronto. Mentalmente, sono pronto, perché lavoro ogni giorno per arrivare a questo obiettivo. Non posso dire se sono pronto tecnicamente o tatticamente, perché spetta agli allenatori giudicarlo, ma mentalmente che sono pronto, perché ho una grande voglia di arrivare”.
Abbiamo sentito molte persone dire che Vinciguerra ha un motore da Serie A, ma che deve ancora migliorare alcune cose. Ti chiedo: secondo te, in cosa devi ancora migliorare?
“Sicuramente non si è mai perfetti, anche quando si arriva in Serie A bisogna sempre migliorare. Ho ancora tante cose su cui lavorare, come, ad esempio, la tecnica nello stretto, come la sterzata. Però, ogni giorno in allenamento cerco di migliorare, sia tecnicamente che nella visione di gioco, imparando a ruotare per vedere in che posizione mi trovo e fare la scelta giusta. In particolare, devo migliorare nel capire quando calciare e quando dare la palla al compagno. Ci sono ancora tante cose che devo perfezionare”.
Più importante il gol o l’assist, secondo te?
“Sono attaccante, il gol tutta la vita. Poi, anche l’assist sicuramente aiuta la squadra, ma per non rischiare che poi non diventa assist meglio fare gol (ride ndr)”.
Parliamo un po’ di famiglia, perché tu hai già accennato al fatto che questo gruppo è come una famiglia, ma anche della tua famiglia in particolare. Hai detto che sei arrivato qui 13 anni fa e che hai dovuto affrontare tante cose da solo. Raccontaci un po’ del rapporto con la tua famiglia, perché immagino che in questi anni di distanza ci siano stati tanti sacrifici. Stare così tanto lontano da casa non è facile, però c’è sempre quel legame che non si rompe mai, che non si interrompe mai.
“Mia mamma, quando abbiamo ricevuto la notizia a casa, è stata la prima a dirmi di andare, soprattutto per tutti i sacrifici che erano stati fatti in precedenza. Mi ha detto di sentirmi libero di fare questa scelta, e che se qualcosa non fosse andato, sarei potuto tornare senza problemi. Quando avevo delle difficoltà in convitto, non chiamavo mai mia mamma per non farla preoccupare, quindi mi sono sempre arrangiato da solo. Però sì, con mia mamma ho un rapporto fantastico. Nonostante questi anni lontano da casa, quando torno sembra che non sia mai andato via, anzi, è ancora più contenta, tutta l’attenzione è su di me. Quindi sì, non è cambiato assolutamente nulla. A Milano, ovviamente, c’erano mia mamma e anche mia nonna. Come ho detto in alcune interviste, mio nonno purtroppo è venuto a mancare. Se fosse stato ancora qui, sono certo che si sarebbe trasferito a vivere qui con me, perché mi portava sempre sui campi e rimaneva lì”.
Famiglia significa anche affetti e amore. Sappiamo tutti del tuo rapporto con la sorella di Nicolò Barella, Martina. È un legame che dura ormai da anni, e immagino che ti abbia aiutato anche a inserirti, a stare bene e a sentirti a casa qui a Cagliari.
“Assolutamente sì, ho avuto la fortuna di incontrare Martina, che mi ha dato tantissimo in questi anni. È una ragazza molto matura e mi aiuta in ogni momento, anche quando un allenamento o una partita non vanno bene. Lei fa di tutto per farmi distrarre o per aiutarmi a superare quel momento. Stiamo insieme da ormai tre anni, che sembrano dieci, perché ne abbiamo passate tante. Ogni vittoria che otteniamo, che sia sua, per il suo lavoro, o mia, è speciale, perché la viviamo insieme. È come se avessimo una famiglia nostra, anche se non ce l’abbiamo ancora, ma noi due già formiamo una famiglia. Quindi, se ho raggiunto questo obiettivo della Coppa, e spero di raggiungerne altri, è anche grazie a lei, che nei momenti di difficoltà è sempre stata al mio fianco. La serenità che troviamo insieme è fondamentale per noi”.
Il cognato Nicolò invece che consigli ti dà?
“Molti mi chiamano il cognato di Barella, ma io mi sento davvero cognato di Nicolò, perché per me è famiglia. Quando lo vedo, è il mio cognato, e Barella è fuori da casa. Barella ha la sua carriera, io ho la mia, e poi c’è anche Alessandro, ma io vivo Nicolò. Quando lo chiamo, non lo chiamo Barella, lo chiamo Nicolò. Se mi chiedete come vedo Barella, non so come rispondere, perché io ho a che fare con Nicolò. Con lui parlo di tutto, tranne che di calcio. Se mi deve dare un consiglio, mi dice ‘stai tranquillo, passerà’, ma non mi parla mai del suo lavoro o del mio. Siamo molto simili caratterialmente, quindi non siamo sempre a parlare di calcio. Quando siamo liberi e ci vediamo, è come se fossimo in vacanza. Quindi, per me, Nicolò è Nicolò. Quando lo vedo non vedo Barella, non mi fa quell’effetto”.
Parlando del discorso Cagliari-Napoli, in cosa ti senti ancora napoletano oggi, nonostante la distanza? E in cosa ti senti invece cagliaritano, sardo?
”La Sardegna e Cagliari, quando sono arrivato qui a 14 anni, mi hanno subito colpito. C’è qualcosa di speciale, qualcosa in più rispetto alle altre città. E col tempo si è rivelato così, che non andrei mai più via da qui. Anche se un domani dovessi andare via, perché il futuro è imprevedibile, vivrei comunque qui. Prenderei una casa a Cagliari, perché qui ho passato tutta la mia adolescenza. Napoli, invece, è dove sono nato, è la mia famiglia, i miei amici, tutto. Sono legato a Napoli, ma calcisticamente il Napoli non mi rappresenta. Quindi, se devo qualcosa calcisticamente, lo devo alla Sardegna. Certo, le devo alla Sardegna e alla gente sarda, che mi ha dato veramente tanto”.
Prima hai parlato dell’anno del Covid, quando segnasti 16 gol in 16 partite con l’Under 15, giusto? Da allora, il livello si è chiaramente alzato, anche perché hai sempre giocato sotto età, e questo va sottolineato e ricordato. Fino ad ora, non è mai arrivata la doppia cifra, ma quest’anno ci sei quasi, tra campionato e Coppa Italia. Quindi ti chiedo: qual è un obiettivo realistico per te? oppure dici “l’importante è che la squadra vinca”.
“Questo è scontato, ma io spero che, anche se dovessero dirmi ‘guarda, ti fermi qui con i gol, ma la squadra va ai playoff e gioca le fasi finali’, va bene lo stesso. Però, chiaramente, un attaccante deve sempre avere degli obiettivi, anche se magari sono piccoli, passo dopo passo, ma bisogna averli. Al momento ho segnato 7 gol in campionato e 2 in Coppa. Il mio obiettivo a breve è arrivare in doppia cifra in campionato, più quelli in Coppa. Poi, non si può mai sapere, magari faccio una doppietta (ride ndr)”.
Con 5 partite rimaste e un calendario che potrebbe favorirvi, non sembra un’impresa impossibile raggiungere i playoff, anche se è difficile. Pensi che la vittoria della Coppa possa aver dato un ulteriore ‘click’ mentale per credere di più nelle vostre capacità?
“Sicuramente questa Coppa ci dà maggiore consapevolezza delle nostre abilità e potenzialità, ma da capitano dico che, ok, è una bella storia, ma ora è arrivato il momento di metterla da parte. Dobbiamo concentrarci sul resto del campionato e dare il massimo nelle prossime 5 partite. Noi non vogliamo fermarci ai ricordi, vogliamo fare qualcosa di ancora più grande. Poi, a fine anno, tireremo le somme, faremo un bilancio e vedremo quali obiettivi abbiamo raggiunto. Per ora, mettiamo da parte questa Coppa e spero di poter raggiungere qualcosa di ancora più grande per la Sardegna”.
Spostiamoci un po’ dal campo. Il Fantacalcio ti piace?
“Sì, lo faccio con Kourfalidis, Veroli ecc, e mi piace, ma quest’anno non sta andando molto bene (ride ndr).”
Facciamo un gioco: componi la tua top 11 ideale.
“Sommer in porta, a destra in difesa Di Lorenzo; centrali, Bastoni e Tomori; a sinistra, Theo Hernandez. A centrocampo, Calhanoglu, Barella e McTominay. In attacco Dybala alla trequarti e Lautaro e Vinciguerra in attacco (ride ndr)”.
Il tuo modello di riferimento per come giochi o vorresti giocare chi è?
“Attualmente, Lautaro Martinez è, per me, il miglior attaccante della Serie A e il principale punto di riferimento. Mi piace molto il suo stile di gioco, come sa proteggere la palla e attaccare la profondità. È un giocatore completo. In passato, invece, ho ammirato molto Dries Mertens. Sebbene non giochi nella stessa posizione che ricopro io, essendo lui più un’ala, c’è stato un anno in cui è stato impiegato come falso nueve. In quella posizione ha fatto 30 gol in una stagione”.
Per quale motivo hai scelto la maglia numero 22?
“Non c’è un motivo specifico, l’ho indossata il primo anno e, col tempo, mi ci sono affezionato”.
Facciamo un altro gioco: chi è il compagno più divertente?
“Il più divertente di tutti, secondo me, è Marcolini. Non lo fa nemmeno apposta, ma quando lo vedi, ti fa ridere. È un grande, è il suo modo di essere. Spero che non cambi mai, perché è un ragazzo eccezionale. Quando decide di far divertire ancora di più, è finita, ma sa essere anche serio quando serve. È davvero un ragazzo molto divertente ma al contempo intelligente”.
Il più riflessivo invece?
“Ce ne sono diversi, ma se dovessi scegliere, direi Andrea Cogoni”.
Il più permaloso?
“Qua c’è una classifica: primo posto inamovibile Yael Trepy, secondo ci mettiamo Sofiane Achour e al terzo Jacopo Simonetta”.
Il più pazzo?
“Un po’ pazzo, nel senso che non ha filtri che dice o fa sempre cose imprevedibili, è Matteo Amos Marini. A volte dice cose che possono sembrare fuori luogo, ma lui è semplicemente spontaneo”.
Quello più serio?
“Grandu”.
Quello con cui uscire la sera e quello con cui fare una vacanza?
“Ognuno di noi è diverso, ad esempio io sono un ragazzo a cui non piace uscire la sera, andare in discoteca o fare casino. Preferisco magari andare a cena e poi tornare a casa, stare insieme in modo semplice. Se devo scegliere qualcuno simile a me, direi Bolzan. È un ragazzo tranquillo, concentrato sui suoi obiettivi, e anche quando andiamo in vacanza siamo molto simili nel modo di vivere quei momenti”.
Le passioni di Alessandro Vinciguerra oltre il calcio?
“Ho una passione per la collezione di vini. Non tanto per il piacere di berli, quanto per l’idea di avere bottiglie rare da tenere in cantina. Mi piace pensare che tra dieci anni, quando verrà qualcuno, potrò aprire una bottiglia speciale. Mi appassiona molto conoscere e scoprire nuove etichette. E per chiarire, Nicolò Barella non c’entra nulla con questa passione (ride ndr)”.
Nel tuo tempo libero, ti piace guardare film, serie TV o giocare ai videogiochi?
“Quando ho tempo libero, mi piace giocare ai videogiochi, soprattutto a calcio e Call of Duty, perché mi aiutano a distrarmi. Mi rilassano, sia dopo una vittoria che dopo una sconfitta, permettendomi di staccare un po’. Per quanto riguarda film e serie TV, ne guardo volentieri, soprattutto su Netflix. Prima delle partite, ascolto musica, e il mio genere preferito è il rap napoletano, in particolare Geolier”.
Un piatto napoletano e un piatto sardo?
“Escludendo la pizza, mi vengono in mente gli gnocchi al ragù, fatti da mia nonna, davvero squisiti. Per quanto riguarda la cucina sarda, rimanendo sui primi, direi i culurgiones”.
Quali sono gli auspici per questo finale di stagione, considerando che mancano 5 partite? Cosa ti aspetti da queste ultime sfide?
“Come ho già detto, mi auguro di riuscire a realizzare tutti gli obiettivi che ci siamo prefissati. Non vogliamo fermarci, come ho detto prima, abbiamo la mentalità giusta e ci alleniamo ogni giorno per raggiungere nuovi traguardi. Questo successo che abbiamo ottenuto è bellissimo, ma ora dobbiamo metterlo da parte e godercelo a fine stagione. Ma ora la testa è rivolta alle ultime partite del campionato”.
Futuro? Vorresti restare a Cagliari?
“Mi piacerebbe restare a Cagliari, perché qui sono cresciuto e praticamente sono nato calcisticamente. Non ci sarebbe niente di più bello. Ovviamente, il futuro è incerto e non possiamo prevederlo, ma spero davvero di restare e magari riuscire a farmi un posto in prima squadra. Il futuro, però, è sempre imprevedibile. Prendi ad esempio Idrissi: il suo obiettivo era rimanere a Cagliari, ma poi è arrivata un’opportunità che ha dovuto cogliere, e magari questa esperienza gli servirà per tornare un giorno. Io, comunque, spero di rimanere, e che il futuro mi riservi opportunità che mi permettano di crescere e restare a Cagliari”.
Ultima domanda, facciamo un gioco: immagina che ci rivediamo tra 5 anni — dove ti vedi, cosa pensi di aver raggiunto nel frattempo?
“È forse banale dirlo, ma mi piacerebbe vedermi in una prima squadra importante, magari anche in Serie A, e aver già raggiunto qualche traguardo significativo: un gol importante, un contributo decisivo, sentirmi protagonista. Ovviamente, il sogno più grande sarebbe che quella squadra fosse il Cagliari”.
Francesco Aresu