Pinturas: ritratti di uomini normali e straordinarie imprese.
“Sole sul tetto dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone, e terra e polvere che tira vento, e poi magari piove…” (Francesco De Gregori, “La leva calcistica della classe ’68”)
Olbia, 26 aprile 1987.
In campo contro i padroni di casa si presenta la Torres. Un derby decisivo per le sorti del club sassarese alla ricerca della promozione in C1. In panchina per la squadra rossoblù siede Bebo Leonardi, in campo un giovanissimo Gianfranco Zola, fuori dagli undici titolari un ragazzo che ha da poco compiuto 26 anni, che di nome fa Walter e di cognome Tolu.
Folti riccioli neri, titolare (quasi) inamovibile di quella Torres che negli anni toccherà con mano il sogno della Serie B, grazie a una squadra ricca di sardità, sinonimo di appartenenza e di voglia di dare tutto per la maglia.
In quel gruppo, oltre al futuro Sir Gianfranco, ci sono Sergio Pinna in porta – un cognome un destino fra i pali della Torres –, ci sono Roberto Ennas e Giuseppe Galli, c’è Mario Piga con il suo passato in Serie A, c’è il compianto Angelo Del Favero. E poi c’è lui, l’ala destra riccioluta, quello che negli anni ’80 veniva definito tornante, Walter Tolu.
Il 26 aprile 1987 a Olbia è la sua partita, anche se, a sorpresa, Walter la inizia scaldando la panchina. La Torres veleggia verso il primo posto, il derby è l’occasione per lanciare la volata finale. La sera prima, in albergo, Leonardi comunica a Tolu che no, non sarà della sfida dal primo minuto e lui, ovviamente, non la prende benissimo. Che si tratterà di un pomeriggio speciale, però, lo si capisce fin dal riscaldamento quando il ragazzo con i ricci viene coperto di insulti dai tifosi di casa: il preciso perché non si sa, ma per Tolu, timido fuori dal campo e capace di farsi rispettare nel rettangolo verde, quelle urla funzionano da ulteriore carica, come se non bastasse la rabbia per l’esclusione dall’undici di partenza.
Dopo 45 minuti l’Olbia è in vantaggio, negli spogliatoi Leonardi capisce che no, non può fare a meno di chi gli garantisce dribbling e cross. “Scaldati Walter, entri subito dopo l’intervallo”. E Tolu non solo entra, fa ben di più. Gli bastano tre minuti: palla che arriva in mezzo dalla sinistra su azione da calcio da fermo, inserimento perfetto, tiro a botta sicura e gol. Con la partita che torna in parità, per poi concludersi due a uno per la sua Torres.
Walter dopo la rete corre, corre all’impazzata. Ma non verso i propri tifosi, non sotto la curva dietro la porta che lo ha visto insaccare, non verso la panchina. No. Lui corre per tutto il campo fino alla parte opposta, dove ci sono i ragazzi olbiesi che lo avevano insultato nel riscaldamento. Cosa gli disse? Mistero. Non lo rivelerà mai, ma sicuramente non andò a salutare la sua fidanzata come dichiarato nel dopo partita. Però per il suo amore di certo stava esultando, un amore chiamato Torres. A Sassari Walter è nato, il 3 aprile 1961. A Sassari è cresciuto, a Sassari si è realizzato come calciatore: Nemo propheta in patria, in quella città più che altrove, ma Walter riesce piano piano a scalfire la diffidenza tipica dei torresini verso i giocatori cresciuti in casa, fino a diventarne icona.
187 presenze in 9 stagioni con la maglia rossoblù, dalla Serie D alla C1, la B sfiorata e la carriera finita lontano da casa, tra Andria, Francavilla, Nocera Inferiore. Ma l’unica, vera maglia sulla pelle è quella della Torres, anche se…Walter Tolu non lo ha mai nascosto. Il suo cuore è diviso in due: da sardo non può che tifare il Cagliari, d’altronde ha 9 anni quando Gigi Riva e i ragazzi del 1970 portano in Sardegna lo scudetto. La Torres, però, è il suo destino. Lui, sassarese, confinato su quella fascia destra a saltare avversari e servire compagni: la solitudine dell’ala, incarnata perfettamente dal suo viso spigoloso e dai riccioli al vento.
Carbonazzi è un rione di calciatori: in viale Adua negli anni ’70 non c’era la Sacra Famiglia, ma il campo della Brigata Sassari dove cresce Walter Tolu. I primi calci con l’Astrea ’72, vecchia società ormai scomparsa da più di due decenni, poi Walter viene notato dalla Torres che lo porta nelle proprie giovanili. Siamo a fine anni ’70, i rossoblù sono in Serie D alla ricerca di una risalita nel calcio che conta, con in panchina un certo Vanni Sanna che darà il nome allo stadio della città, che all’epoca e per tanti anni era conosciuto soltanto come Acquedotto.
Non è un caso che colui cui verrà intitolata la casa della Torres sia stato l’artefice principale del destino di chi, alla Torres, ha dato gloria. Per alcuni effimera, per altri eterna, ma soprattutto anima e cuore: il binomio Vanni Sanna-Walter Tolu ritorna più volte nella carriera dell’ala riccioluta.
Intanto il primo gol con la maglia rossoblù, nel lontano campionato ’80-’81, quello dell’agognata promozione in C2: Torres-Rieti, in cui un Tolu quasi ventenne di buone speranze e da poco aggregato in prima squadra, segna la prima rete della sua carriera torresina proprio con Sanna a guidarlo in panchina. Non saranno tante, perché non è un goleador ma uno che i gol li serve su un piatto d’argento all’attaccante di turno. Gli annali di allora non tenevano conto degli assist, come avviene oggi. Ché chissà quanti ce ne sarebbero annotati nel tabellino di Walter.
Dopo tre anni da giovane senza titolarità ecco il primo e unico prestito, non tanto lontano, ma di nuovo in Serie D. Tolu deve formarsi, deve giocare ed ecco che arriva l’occasione alla Nuorese. In panchina sempre lui, chi se non il suo mentore Vanni Sanna: sarà un successo, anche grazie al suo talento i verdazzurri vinceranno il campionato e Walter conoscerà la sua seconda promozione in C2 in soli quattro anni.
La Torres lo riporta a casa, quella maglia lo aspetta: il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette, questo altr’anno giocherà con la maglia numero sette. E Walter si fa, eccome se si fa, e quel numero, il sette, diventerà un tutt’uno con il suo cognome, anche se non è ancora era di nomi sulle maglie.
A Sassari, però, l’ala destra è solo lui, Walter Tolu, da sempre e per sempre. Non sarà solo l’uomo dei dribbling e dei cross, ma ne diventerà anche il capitano, onere e onore per uno per cui la Torres è tutto, ipse dixit.
Poi arriva la stagione d’oro, quella del derby con l’Olbia, del gol, della corsa all’impazzata, ma soprattutto quella dell’ultima di campionato ad Alessandria. Il Moccagatta, famoso per aver visto i primi passi di un certo Gianni Rivera, è uno stadio piccolo, in mezzo a palazzine basse e un po’ spostato, ma non troppo, dal centro della cittadina del basso Piemonte. Quel giorno, 7 giugno, è un quadro a tinte rossoblù grazie all’esodo dei duemila sassaresi o forse più, cui si aggiungono le decine di migliaia di tifosi restati in Sardegna in attesa di buone notizie.
La C1 è a un passo, uno come il punto che basterebbe per la promozione. I Grigi sono già retrocessi ma non è tempo di regali, e poi l’anno prima la Torres gli ha scippato la promozione nonostante non avesse nulla più da chiedere al campionato.
Certo, giocare al Moccagatta non è semplice, però quel giorno la Torres è in casa, di fronte al proprio pubblico, in un tripudio di bandiere rossoblù che fa sentire i suoi eroi come se si giocasse a Sassari. Rubattu, il presidente di quella armata gloriosa, è lì con i ragazzi, il resto è storia: il cross di Galli e la conclusione a rete di Mario Piga, uomo della provvidenza e dei gol decisivi come ad Avellino, le magie del giovane Zola, le corse sulla destra del timido Walter dai riccioli neri.
Alla fine aveva ragione Leonardi. All’inizio mica si erano presi bene il tecnico e Tolu: quell’uomo risoluto che aveva giocato con la Roma e con la Juventus pretendeva da Walter un livello da Serie A, mentre lui era un semplice e onesto giocatore di Serie C. Convinzione nei propri mezzi, solo questo chiedeva Bebo. E Tolu cresce, cresce fino a raggiungere quel pomeriggio al Moccagatta la C1 e, non è un’assurdità, quella C1 a uno come Walter sta strettissima. Oggi Tolu probabilmente sarebbe un giocatore di livello assoluto per la Serie B, un campionato che in carriera non ha mai giocato, ma che avrebbe certo meritato: i derby contro il Cagliari, il quarto posto a un passo dal sogno l’anno che i rivali vincono il girone, le sfide contro le corazzate in un Acquedotto sempre pieno e fortino invalicabile e le immancabili corse sulla destra.
Tre allenatori che ne hanno segnato la storia di calciatore: Bebo Leonardi il vincente e la sua cura maniacale del gruppo, Franco Liguori il migliore per i suoi metodi avveniristici, Vanni Sanna il secondo padre che lo indirizza verso i giusti comportamenti. Come quella volta in ritiro a Villanova Monteleone: Walter è un ragazzino, gli anziani lo mandano al supermercato a comprare le bibite alcoliche vietate dal tecnico, lui che torna in albergo e trova Sanna sull’uscio, pronto a dargli un – meritato – calcio nel sedere.
Oggi Walter Tolu fa l’agente di commercio. Ogni tanto ricorda quei tempi, ogni giorno tiene stretto a sé l’amore per la Torres, la gioia di aver potuto indossare quella maglia. No, nessun sacrificio ma solo gioia, come dovrebbe essere sempre giocare a pallone: creare un gruppo di amici, vivere assieme alti e bassi, il profumo dello spogliatoio, quello dei bei tempi andati, del televisore bandito dai ritiri e nessun isolamento nella tecnologia.
Nemo propheta in patria, dice il Vangelo. Ma per ogni regola c’è un’eccezione, e Walter Tolu ne è l’esempio in salsa torresina.
Matteo Zizola