“Un’intervista? Chiamami quando vuoi, questo è il numero”. Difficile trovare tanta disponibilità in qualcuno che ha fatto il calciatore professionista negli ultimi 20 anni, quando giocare a pallone da hobby domenicale è diventato il mestiere più ambito dai bambini di mezzo mondo. Quello che – ragionando per stereotipi – ti dà visibilità, soldi, successo. Ecco, Dario Silva è tutt’altro. E lo capisci subito, appena risponde alla chiamata. “Mi hai chiamato da un altro numero, ma ho visto subito che era di Cagliari”, ci dice, dopo aver riconosciuto lo 070 del prefisso. Già questo potrebbe bastare a far capire il tenore della telefonata. Come quando senti un vecchio amico lontano, di cui magari avevi perso ultimamente le tracce, ma dal primo saluto capisci subito che la complicità non è mai tramontata. Benché, in questo caso specifico, fosse la prima volta: una mezz’ora piacevole e ricca di aneddoti. Una miniera di racconti, quadretti e un comune denominatore: una contagiosa gioia di vivere, dimostrata con risate (contate quante ne abbiamo inserito) e simpatia. Sempre unico, Sa Pibinca.
Tre anni a Cagliari, 24 gol in quasi cento partite. Ci sono calciatori con il doppio dei tuoi gol e delle tue presenze che non sono rimasti nel cuore dei tifosi rossoblù, come invece è successo a te. Ti sei mai chiesto il perché?
Questo non lo so (ride, ndr), ma una cosa sì: so di essere stato benissimo a Cagliari. Sicuramente durante la mia esperienza sono stato vicino ai tifosi, probabilmente anche più di altri. Anche il mio carattere ha influito tanto, non mollavo mai e tutte le partite le giocavo sempre al cento per cento. Le mie caratteristiche sono sempre state quelle, ovunque abbia giocato.
Cagliari e Montevideo sono allo stesso tempo lontane e vicine: nella storia rossoblù il paese straniero più rappresentato è proprio l’Uruguay, con 20 calciatori. Cosa c’è di così speciale per un uruguaiano che viene a giocare in Sardegna?
Penso che sia il rapporto con la vostra gente, non a caso siamo in tanti gli uruguaiani a esserci trovati benissimo. I tifosi, tutto l’ambiente ci ha sempre lasciato lavorare tranquillamente, anche quando le cose non sono andate come dovevano. D’altronde, nel calcio non sempre va bene: io sono arrivato giovane (23 anni, ndr), ma mi sono subito trovato a mio agio, nonostante i risultati non ci abbiano sempre premiato.
Sei arrivato a Cagliari nell’estate del 1995, con una fama da goleador conquistata a suon di reti con il Penarol, trovando sulla panchina rossoblù un mito come Giovanni Trapattoni. Sulle tue spalle la maglia numero 9 ereditata da Dely Valdes, tuo futuro compagno di squadra a Malaga. Cosa ricordi di quel periodo?
È un peccato non aver giocato insieme a Dely Valdes anche a Cagliari, perché avremmo regalato tanta gioia ai tifosi. Per quanto riguarda il Trap, a lui devo tanto. In pochi mesi mi ha fatto imparare il giusto approccio con il calcio italiano: ho imparato a giocare come lui voleva, anche se è andato presto via da Cagliari. Può sembrare un paradosso, ma i frutti dei suoi insegnamenti li ho colti soprattutto l’anno della retrocessione. Lì ho capito cosa volesse da me e cosa potessi dare al Cagliari.
La stagione successiva sembrava apparecchiata appositamente per farti esplodere: in panchina arriva il tuo connazionale Gregorio Perez, tuo ex tecnico al Penarol, che spinge per l’acquisto di Luis Romero, esperto centravanti “di fisico”, convinto che insieme avreste fatto meraviglie come in patria. Invece, dopo sole 6 partite Perez viene cacciato da Cellino; in più Romero non vede mai la porta, tanto che a gennaio viene rispedito a casa. Come hai vissuto quei mesi?
È stato il momento più difficile della mia carriera cagliaritana, perché loro erano due persone molto importanti. Perez credeva tanto in me, mentre Romero è stato sfortunato. Certo, poteva fare meglio, ma ha avuto anche poco tempo a disposizione. Una volta partiti loro, ho cercato di concentrarmi soltanto sul campo, ma devo dire che con Mazzone (sostituto di Perez, ndr) mi son trovato male. Siamo passati da allenamenti dove contava maggiormente la tecnica a un lavoro soprattutto fisico: passavamo tanto tempo in palestra, forse troppo, dato che ho avuto diversi guai muscolari. Evidentemente la preparazione non era quella giusta, sia dal punto di vista atletico che tattico. In quei mesi con Mazzone, secondo me, siamo tornati indietro dal punto di vista di gioco. E si è visto com’è finita.
Parliamo proprio di questo. L’anno finisce male, con la retrocessione a Napoli nello spareggio contro il Piacenza. Cosa è successo poi? Avresti potuto lasciare Cagliari, magari per un ingaggio in qualche club europeo più prestigioso per continuare a rimanere nella Celeste, ma non lo hai fatto. Perché sei rimasto anche in Serie B?
Semplice: sono rimasto per la gente, per i tifosi. Ma soprattutto perché penso, ma lo pensavo anche allora, che potessi fare di più, forse anche per colpe non del tutto mie. Quella retrocessione mi sconvolse, mi fece proprio male: decisi, quindi, che volevo a tutti i costi riportare il Cagliari in Serie A.
Raccontaci l’anno della Serie B, il 1997-98. Tu stabilisci il record di gol a Cagliari (13), la squadra torna immediatamente fa ritorno in Serie A, ma ci sono tanti dissapori con Giampiero Ventura, al punto che a fine stagione lasci la Sardegna. Ti sei pentito di non essere rimasto anche dopo?
Con lui ho avuto tanti problemi. Ha fatto cose che non meritano neanche di essere ricordate, perché mi fanno stare male. Ho sopportato tutto per troppi mesi, a volte non ho giocato per piccoli infortuni anche per colpa sua. A fine anno sono andato a parlare con il presidente Cellino: gli ho detto “Scelga, o lui o me”. Lui avrebbe voluto continuare con entrambi, anche perché avevo un contratto lungo. Ma io avevo deciso, quindi alla fine sono andato via.
Ventura sembrava quasi avere un conto aperto con voi uruguaiani.
Sono successe troppe cose brutte, sia sul campo di gioco, ma soprattutto “extra calcio”, anche in allenamento. Noi uruguaiani siamo abituati così. Le partite si devono vincere sul campo, è lì che si decide il risultato, non si vince certo sul divano. Siete rimasti fuori dal mondiale per colpa sua, ma non avevo dubbi quando ho visto che era stato scelto lui per la panchina dell’Italia.
Piccola digressione. Chi è l’attaccante più forte con cui abbia mai giocato?
Non c’è storia (ride divertito, ndr): Julio Cesar Dely Valdes, in assoluto. È stato un giocatore meraviglioso, purtroppo ci siamo trovati tardi, perché io ho preso il suo posto a Cagliari quando lui è andato al Psg. È stato un genio! Quando giocavamo nel Malaga, in campo parlavamo sempre in italiano per non farci capire. Ma non c’era bisogno, la nostra è stata un’intesa naturale e micidiale: entrambi sapevamo dove sarebbe andato l’altro, oppure dove mettere la palla.
A Cagliari hai giocato con altri grandi attaccanti come Lulù Oliveira, Roberto Muzzi e il Cobra Tovalieri. Cosa ci dici di ognuno di loro? Con chi ti sei trovato meglio?
Bei tempi! Tutti e tre grandi giocatori, anche se profondamente diversi. Muzzi è stato un grandissimo giocatore, lo abbiamo dimostrato in Serie B dove eravamo una coppia fortissima (30 gol in due in campionato, ndr). La nostra forza era data dall’amicizia che andava oltre il campo di gioco. Anche fuori eravamo spesso insieme, avevamo un rapporto davvero bello e lo si vedeva anche sul campo. Tovalieri era il classico 9 che ci serviva in quel momento disgraziato: faceva gol e aiutava anche la squadra. Cosa chiedergli di più? Chiudo con Lulù, che per me è stato un calciatore micidiale (ride ancora, ndr). Abbiamo giocato solo un anno insieme, ma abbiamo ancora una gran bella amicizia. Volevamo entrambi molto bene al Cagliari, lui lo ha dimostrato fermandosi a vivere in Sardegna.
Nella tua vita c’è un anno a fare da spartiacque, il 2006. In Italia è l’anno dei Mondiali vinti da Cannavaro e compagni, per te significa ben altro. Iniziamo dalla stagione non indimenticabile in Inghilterra al Portsmouth, con 2 gol e poche soddisfazioni, tanto che a fine stagione ti ritrovi senza squadra.
In Inghilterra sono andato dopo aver avuto problemi con l’allenatore a Siviglia (Joaquin Caparròs, ndr). Andato via lui, la squadra è cresciuta tanto da vincere due Coppe Uefa consecutive. Evidentemente, avevo ragione io. La Premier League è un calcio molto diverso rispetto a quel che avevo conosciuto prima. Lì ho vissuto una situazione paradossale, mai capitata prima: un forte razzismo dentro lo spogliatoio, con le riserve che nelle partitelle cercavano di far male ai titolari, così da giocare loro, invece che pensare al bene della squadra. Era una guerra continua, ma è finita dopo solo un anno.
Poi, a fine estate, l’incidente stradale a Montevideo che ti ha cambiato la vita. Oggi, a distanza di quasi 13 anni, come vivi il ricordo di quei momenti?
Non ho un ricordo preciso di quel giorno, visto tutto quello che mi è successo (diversi giorni in coma, con l’amputazione della gamba destra, ndr). Mi è certamente cambiata la vita, ma non mi sono certo perso d’animo. Continuo a fare tante delle cose che facevo prima, ho pure ripreso a giocare a calcio, partecipando ad alcune amichevoli di beneficenza. Vivo tutto con molta tranquillità, il pallone non è un peso. Sicuramente la vita in famiglia è cambiata tanto, in meglio (ride di gusto, ndr), ma già prima dell’incidente a farmi cambiare il modo di intendere la vita è stata la morte di mio padre. Cerco solo di essere un buon esempio per chi vive situazioni simili alla mia, non posso e non voglio certo arrendermi.
Nel 2018 il tuo amico Diego Lopez ha allenato prima il Cagliari, ottenendo una complicata salvezza all’ultima giornata, poi ha vinto il torneo Clausura con il Penarol. Cosa pensi di lui come allenatore?
Come persona è micidiale (sic), parla poco ma si fa capire. Questa è una dote importante nel calcio. Può crescere ancora come allenatore, ora è in una grande squadra e ha vinto subito. Sono molto orgoglioso di lui e della sua carriera.
Un altro uruguaiano con cui hai condiviso grandi emozioni a Cagliari è senza dubbio Fabian O’Neill. Che ritratto faresti di lui?
Di Fabian non posso che parlare bene, insieme abbiamo fatto anche il Mondiale 2002. Dopo Enzo Francescoli, credo sia in assoluto l’uruguaiano più forte che abbia vestito la maglia del Cagliari. È stato un grandissimo calciatore: poteva essere tra i migliori al mondo, ma è lui che ha deciso di non esserlo. Lui è fatto così, già allora bisognava prenderlo per quello che era. Finché son stato in Sardegna ho cercato di stargli vicino, cercando di essere un fratello maggiore e di dargli il buon esempio nei comportamenti. Posso dire che se O’Neill è sbarcato a Cagliari è anche merito mio: in quel periodo Trapattoni mi chiese se Fabian sarebbe potuto essere un buon rinforzo per noi, io non potevo che dirgli di sì. E i suoi anni cagliaritani lo dimostrano.
Segui sempre il Cagliari? Cosa pensi di questa annata con Maran in panchina?
Ho tanti amici sardi che mi fanno sentire di famiglia e io voglio tanto bene al Cagliari. Ormai le partite si vedono anche sul cellulare, quindi riesco a seguirlo meglio che in passato. Ora si sta riprendendo dopo qualche partita meno positiva, ma ora è ben messo in classifica. Poi si può sempre fare un po’ meglio, ma lo dico da tifoso (ennesima risata, ndr).
Ci descrivi Christian Oliva? A quale tuo connazionale si può paragonare?
Penso che potrebbe essere un giocatore davvero importante, ma è giovane e deve ancora crescere per diventare al livello dei suoi predecessori. Non somiglia a nessuno dei vari Abeijon, O’Neill o Herrera, ma potrebbe ritagliarsi il suo spazio. Devo confessare che durante il periodo del calcio mercato ho fatto il tifo affinché Nandez potesse andare a Cagliari, ma visto il prezzo mi sembrava un affare assai difficile e purtroppo è andata proprio così.
Giochiamo un po’ con la fantasia. Come ti vedresti nel Cagliari di oggi? Manca in rosa una punta con le tue caratteristiche…
In attacco manca certamente un po’ di fantasia, ma credo che dipenda dall’assenza di un vero numero 10 che metta bei palloni, proprio come O’Neill. Pavoletti? Mi piacerebbe molto giocare con lui (altra risata, ndr), sarebbe stato bello essere a Cagliari in forma come a Malaga, con i muscoli al top. Sono sicuro che avrei fatto ancora meglio.
In conclusione, Dario: manda un messaggio ai tifosi del Cagliari.
Sono nato a Treinta y Tres e questo non cambia. Eppure mi sono sempre sentito sardo, continuo a sentirmi sardo. Ai tifosi dico solo questo: giocatori, allenatori e presidenti passano, ma la maglia resta. Non bisogna mollare mai e sostenere sempre la squadra. Ma non c’è bisogno che lo dica io…
Francesco Aresu