Materia intricata la mente dell’uomo: è capace di dare forze che non si ha coscienza di avere, ma allo stesso tempo difficile da gestire e allenare nella sua complessità. Per uno sportivo, così come è importante allenare il proprio corpo in funzione della prestazione sportiva, allo stesso modo e per lo stesso obiettivo è fondamentale allenare la mente. “Nel tiro con l’arco funziona così: l’atleta sta sulla linea di tiro, due o tre metri dietro c’è l’allenatore che con il binocolo dà consigli e informazioni al tiratore. Ecco, io mi colloco dietro l’allenatore”. Questo è ciò che fa il dottor Manolo Cattari: psicologo dello sport, psicoterapeuta e professore presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Sassari (solo per citare alcune delle diverse cariche che copre). Come accaduto alle ultime Olimpiadi di Parigi, quando ha seguito la nazionale italiana di tiro con l’arco in qualità di psicologo della Fitarco (Federazione Italiana di Tiro con l’Arco) e alle tre precedenti edizioni dei Giochi. Dall’ultima esperienza vissuta in Francia, passando per le emozioni che provano gli atleti durante la manifestazione, ma anche quanto questa figura sia fondamentale per gli atleti che gareggiano ai massimi livelli, ma in particolare per chi si avvicina per la prima volta allo sport: questa la nostra intervista al dottor Cattari.
Dottor Cattari, quest’estate lei ha preso parte in qualità di psicologo della nazionale italiana di tiro con l’arco alle Olimpiadi di Parigi, la quarta della sua carriera. Qual è il ricordo più bello che ha di questa esperienza?
“Il ricordo più bello è legato alla bellezza della città. L’Olimpiade permette al luogo che la ospita di dare il meglio di sé e così è stato anche per Parigi. Hanno valorizzato la parte storica della città rendendola mozzafiato. Noi siamo arrivati il giorno prima della cerimonia inaugurale e abbiamo visto la città ospitare la cerimonia. Io non alloggiavo al villaggio olimpico, però vi avevo accesso quando volevo. Passeggiare per le vie centrali di Parigi era uno spettacolo incredibile che chi alloggiava nella cittadella di Saint-Denis, situata in una zona più periferica, non ha potuto apprezzare appieno”.
Per lei quella che si è appena conclusa è stata la quarta Olimpiade, ha avuto quindi modo di confrontarsi con colleghi di altre nazioni che fanno psicologia all’interno dello sport. Come è vista, rispetto agli altri Paesi, la figura dello psicologo sportivo?
“Dipende molto anche dalla disciplina in cui opera uno psicologo dello sport, ci sono alcuni sport in cui questa figura gira con la propria nazionale nelle varie competizioni. Nel tiro con l’arco, che ha una forte componente mentale, è facile trovare colleghi di altri paesi. Noi in Italia abbiamo un percorso molto strutturato: vanno fatti al minimo cinque anni di psicologia, al minimo un anno di tirocinio e un master biennale, poi la maggior parte di noi ha una specializzazione in psicoterapia di altri quattro anni. In altri Paesi non sempre è così lungo e strutturato il percorso di formazione. In Germania ho lavorato in una facoltà in cui era presente un percorso di laurea con una formazione che era un ibrido tra le scienze motorie e la psicologia. Noi abbiamo una grande associazione a livello europeo che tende a raggruppare tutti gli psicologi dello sport, ho notato che tutti hanno un percorso simile al mio”.
Attenzione, concentrazione e cura dei dettagli nelle gare di tiro con l’arco sono fondamentali. In questo senso come si lavora con gli atleti e come si allena questa caratteristica?
“Io in qualità di psicologo dello sport faccio parte di uno staff e ci tengo a sottolineare questo aspetto. Oltre me ci sono tre allenatori, il direttore tecnico, il fisioterapista, il medico e il preparatore atletico. Ho sempre però presentato la mia figura come un elemento essenziale dello staff. Un profilo che ha il compito di essere ammortizzatore e armonizzatore dei vari momenti e dei vari aspetti emotivi che si vivono non solo durante la prestazione, ma anche in fase di costruzione della stessa. Una settimana si e una settimana no, in avvicinamento all’Olimpiade, ho vissuto con gli atleti durante il raduno. Li abbiamo raggiunti insieme allo staff per vivere la quotidianità in preparazione alla gara. Il grosso del mio lavoro è quello di essere una sorta di consulente del tecnico che sta dietro l’atleta. Nel tiro con l’arco funziona così: l’atleta sta sulla linea di tiro, due o tre metri dietro c’è l’allenatore che con il binocolo dà consigli e informazioni al tiratore. Ecco, io mi colloco un po’ dietro l’allenatore. Tendo a curare nel miglior modo possibile la relazione che si crea tra i due al fine di farli eccellere sotto l’aspetto comunicativo. Oltre a questo c’è anche tutto un lavoro mentale che si fa con gli atleti in sede di preparazione all’evento: quali l’allenamento ideomotorio, promozione di tecniche di focalizzazione sull’obiettivo, di rilassamento, tutte attività selezionate in base a ciò che l’atleta richiede”.
In gare così importanti come quelle delle Olimpiadi, quali sono le emozioni che entrano in gioco e come si gestiscono?
“Lo sport ruota intorno alle Olimpiadi. In quelli minori quest’importanza è amplificata perché è l’unico momento in cui gli sportivi di queste discipline hanno un palcoscenico internazionale dal così grande impatto mediatico e con un’ampia partecipazione del pubblico. Questo è un aspetto interessante su cui riflettere. Perché spesso gli atleti si trovano ad affrontare delle situazioni a cui non sono abituati. Lasciandosi andare a delle dichiarazioni senza avere il controllo o l’idea di ciò che può succedere perché non si è abituati ad avere così tanti occhi puntati addosso. L’emozione principale è quindi la tensione, perché il risultato olimpico o la qualificazione ai Giochi influisce anche sulla federazione: sui finanziamenti che riceve in base alle medaglie vinte o dai pass per le Olimpiadi conquistati. Questa pressione va ad aggiungersi a quella che di per sé alla tensione che prova un atleta nel fare la sua gara olimpica. In più se si pensa che nel tiro con l’arco si passa dalle 200 persone presenti nei match extra olimpici, al dover gareggiare in mondovisione e con migliaia di spettatori presenti in platea come accaduto a Parigi, ecco che si aggiunge il carico da novanta. Uno scenario per cui è difficile prepararsi”.
Passando al calcio il tecnico del Cagliari Davide Nicola è diventato noto, oltre che per la sua capacità di salvare squadre praticamente spacciate, anche per il suo approccio psicologico al mestiere di allenatore. Cosa pensa di questa visione?
“Nella realtà non esiste un tecnico che non cura gli aspetti psicologici. La parte psicologica di una prestazione la cura l’allenatore non lo psicologo. La figura dello psicologo dello sport che lavora in una società ha il compito di essere una sorta di supervisore del tecnico nell’aiutarlo a porsi nel modo più efficace possibile con gli atleti. La dimensione mentale, quindi la carica agonistica, poi la cura la figura deputata a fare le scelte e regolare il livello emotivo in campo. Di fatto non è esiste un allenatore che non cura questo aspetto”.
Robin Gosens, giocatore della Fiorentina, in una recente intervista ha detto che lo psicologo e i problemi psicologici che possono avere i calciatori durante una stagione, nel mondo del calcio sono ancora un tabù. Perché secondo lei, in un epoca in cui tutti hanno la possibilità di giudicare anche con toni duri, si fa fatica nello sdoganare questo tema?
“Io sono sia psicologo dello sport che psicoterapeuta, queste però sono due figure differenti. Lo psicologo dello sport non lavora su aspetti clinici o sull’intimità della persona come può fare uno psicoterapeuta, ma lavora sulla costruzione della prestazione, un po’ come può fare un preparatore atletico. Lo psicologo dello sport è un preparatore mentale della prestazione. Nella realtà, parlare con uno psicologo dello sport prescinde dal fatto che possano esserci problemi patogeni. Un atleta fa una preparazione atletica non perché ha un problema muscolare, ma per trovare la migliore tenuta fisica in funzione della partita. Lo psicologo dello sport fa la stessa cosa, però allenando la mente. Però ci sono situazioni in cui le richieste vanno su dimensioni più cliniche, private o personali. Nel momento in cui si presenta una figura psicologica all’interno di un contesto come quello in cui lavoro io non si crea imbarazzo, è come se loro parlassero con un allenatore. Ritornando sulle parole di Gosens, gli atleti vivono una vita complessa, però nell’immaginario comune il calciatore è una persona fortunata, che gira il mondo facendo la bella vita. Dietro tutto questo però c’è una persona…”.
Quanto sarebbe utile invece all’interno delle società avere oltre che la figura dello psicologo dello sport, ovvero quello che opera più nell’allenare la mente in funzione della prestazione, anche quella dello psicologo che si occupa più della parte emotiva dell’atleta, quindi nella gestione delle sue emozioni esulando dal contesto prettamente sportivo?
“È fondamentale, così come è fondamentale lavorare nel momento in cui il bambino di qualsiasi sport si sta avvicinando alla disciplina specifica. La motivazione, che poi è ciò che le persone chiedono quando lavorano con uno psicologo, si costruisce nel modo in cui il giovane sportivo si avvicina a fare attività. La formazione non è mai abbastanza e in questo siamo carenti. Spesso lasciamo al buon senso psicologico l’accoglienza del futuro atleta. Ma in realtà la motivazione allo sport, il creare un clima di un certo tipo e quindi vivere lo sport come uno strumento di realizzazione personale e non come un qualcosa che esasperi la frustrazione o l’importanza di una vittoria o una sconfitta. Lo psicologo deve lavorare su questo…”.
Secondo lei questo aspetto può essere una delle motivazioni per cui si sta facendo sempre più fatica ad avvicinare i giovani allo sport, ma anche nel valorizzare i potenziali talenti nelle varie discipline?
“Anche questo è un argomento complesso, ci sarebbe da aprire un mondo. Il problema in Italia è che lo sport sta in mano completamente alle associazioni sportive e per fortuna che queste ci sono, lo dice uno che è presidente di un’associazione. Però perché dico questo: il fatto che tutto lo sport sia in mano alle varie associazioni porta a fare pochissimo orientamento sportivo. Questo comporta a fare una iperspecializzazione in una disciplina, o perché è quella che va per la maggiore o perché la abbiamo scoperta a scuola, deputando l’attività motoria all’associazione sportiva. Quest’ultima invece dovrebbe essere orientata all’orientare, ovvero deve avere come obiettivo quello di far provare ai giovani più discipline sportive possibili. Questo porta al paradosso di aver atleti giovani e bravi nel fare uno sport specifico ma che non hanno provato altro. Che non hanno scelto una disciplina in funzione di quello che è il loro orientamento mentale, tecnico e atletico. Per cui i ragazzi si trovano in un certo momento della loro vita a stufarsi di fare quella determinata attività e non riuscire più a riciclarsi. Che è quello che sta capitando a noi nell’età dell’abbandono sportivo. Il vero cambiamento dovrebbe essere fatto nel dare il valore dell’attività motoria come per le altre materie scolastiche. Perché i bambini più svariano, giocando e provando diversi sport, più finiscono col scegliere quello che vivono meglio. Con questa attitudine è più probabile anche che riescano a togliersi maggiori soddisfazioni nel fare attività. Questo è un nostro problema enorme, facciamo pochissimo orientamento sportivo. Si parla di fidelizzazione in piscina di bambini ancora non nati: mamme in gravidanza che fanno nuoto, il piccolo nasce e fa neonatale dai 3 mesi ai 3 anni, da quel momento fanno piscina per arrivare poi agli otto anni all’agonismo. Poi ci ritroviamo ragazzini di 12 anni che sono bravissimi in piscina ma non sanno fare una capriola. Quando si stufano di nuotare, perché non tutti possono portarlo avanti per sempre, che fanno? Come si fa a inserirlo in una squadra di calcio a 14 anni se magari non sa fare una capriola a secco. Questo è un esempio, ma è un punto nodale. Ci troviamo superati in diverse discipline da nazioni molto più piccole della nostra che ottengono maggiori risultati perché investono maggiormente in questo”.
Infine un passaggio sulla Torres, l’anno scorso la forza dei rossoblù è stata il vivere una stagione sulle ali dell’entusiasmo. Un percorso storico nella stagione regolare a cui ha fatto seguito la delusione con rammarico nel doppio incontro con il Benevento. Riconfermarsi non è mai semplice, specie quando tutti sono a conoscenza del tuo potenziale. Quanto pesano le aspettative e come si affrontano per rendere al meglio?
“Riconfermarsi è complesso, specie perché non è semplice gestire le pressioni se non sei più un outsider. Sono sicuro che però faranno un bel campionato e che stanno lavorando bene. In passato li ho intercettati, li conosco, sono una realtà attenta a tutti gli aspetti e sono convinto che possono fare un bel percorso. Poi noi sardi abbiamo una cosa che ho trovato in noi e ho avuto difficoltà a riscontrare fuori dall’Isola. Abbiamo una forza di rivalsa micidiale, che è veramente una marcia in più. Questa dimensione è un aspetto fondamentale dal punto di vista mentale. È la grinta che ci contraddistingue. Ho visto bandiere della Sardegna ovunque, in eventi sportivi e culturali. Questa è la nostra forza, la voglia di affermarci in quanto sardi. Su questo farei leva nella costruzione della prestazione mentale sia della Torres che del Cagliari, loro non rappresentano solamente la propria città ma un’intera regione, questo è un punto di forza enorme ed è questo che li farà andare entrambi alla grande: sono l’espressione di un popolo intero”.
Andrea Olmeo