Quando vinci così tanto non può mai essere un caso. Venticinque titoli mondiali, altrettanti europei e 39 campionati italiani conclusi sul podio. Se perciò diventi il più forte nella tua categoria alla base non c’è solo il talento, ma anche determinazione, costanza e voglia di andare fino in fondo davanti alle sfide che la vita ti riserva. Daniele Cassioli, non vedente dalla nascita e campione di sci nautico, è indubbiamente un vincente: un’atleta capace non solo di infrangere i record mondiali, ma anche un uomo coraggioso che ha deciso di raccontare la sua storia in un libro e di fondare un’associazione, la Real Eyes Sport A.S.D, la cui mission è quella di avvicinare i non vedenti alla pratica sportiva. Ne abbiamo parlato insieme in una piacevole chiacchierata.
Daniele, partirei da questo momento di quarantena forzata: quanto è difficile stare fuori dall’acqua?
“È molto dura, lo sport mi manca tantissimo. Oltretutto il mio è uno sport stagionale e queste sono giornate di bel tempo che purtroppo non tornano più: non scio infatti dai primi di novembre. Chi fa uno sport stagionale vive la fase di stop, tra palestra e preparazione atletica, sognando il momento in cui potrà scendere nuovamente in acqua. Allo stesso tempo devo dire che lo sport mi ha insegnato il valore del sacrificio; nonostante il sacrificio venga spesso inteso come lo sforzo fisico, a volte, il vero significato della parola sta nel non fare qualcosa che invece vorresti fare. Credo che i veri sportivi abbiano saputo dimostrare questo, proprio non andando a fare sport, ma rinunciando per un obiettivo più grande qual è il bene comune e la possibilità di riprendere tutti il prima possibile a farlo”.
Come ti stai allenando?
“Sono fisioterapista da tanti anni e ho la fortuna di aver un po’ di conoscenza della materia. Faccio allenamento a casa: corpo libero e cardio, come corsa sul posto, ma anche salire e scendere le scale. Sto sfruttando il trx, che non è allenante come dei pesi, ma permette di migliorare la forza e la resistenza. Faccio inoltre lavoro di stretching e vivendo in un condominio, ho anche iniziato nella zona dei garage, ad allenarmi con un pallone sonoro. Correre e muoversi in uno spazio rimane però un’altra cosa”.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi, ripartenza permettendo?
“A settembre abbiamo i campionati europei di sci nautico anche se ovviamente rimangono un grande punto di domanda, nel senso che non sono sicuro che da qui alla fine dell’anno sarà possibile organizzare eventi internazionali, non tanto per le regole del distanziamento sociale, che uno sport individuale può anche cercare di garantire, ma banalmente per la mobilità delle persone. Poi a febbraio 2021, in Australia, si sarebbero dovuti svolgere i campionati del mondo, ma hanno già comunicato che saranno rinviati di un anno; quindi il grande obiettivo, in base a quanto potrò allenarmi e da inseguire sono i mondiali del 2022”.
Sei stato a Cagliari in occasione della sfida tra i rossoblù e il Napoli. Com’è andata alla Sardegna Arena?
“È stata un’esperienza straordinaria: essere invitati da una società di Serie A, che porta avanti un progetto di responsabilità e attenzione verso il mondo del sociale, e il fatto di poterne far parte attraverso la mia esperienza mi ha inorgoglito tantissimo. Credo che il calcio, per la sua visibilità e l’importanza che riveste dal punto di vista sociale nel nostro Paese, abbia la possibilità di veicolare un sacco di messaggi e bei valori. Quando ci sono delle società che lo fanno, già questo, mi rende felice”.
Come hai vissuto l’incontro?
“La partita è stata un emozione pazzesca. Entrare in un campo di Serie A, stare ad un metro dallo spogliatoio e vivere l’inizio della partita, con tutti quei retroscena che senti solo su Sky o Dazn, come il mister che dà il cinque ai giocatori o le urla prima di entrare in campo, è stato fantastico. Per chi non vede o ci sei dentro o fai fatica a rendertene conto. E poi io sono sempre quel bambino che fin da piccolo sognava di giocare a calcio. Anche la possibilità di stare vicino ai ragazzi (i piccoli supporter della “scuola di tifo” presso la Curva Futura, spicchio della Curva Sud, ndr) e farsi raccontare la partita penso sia stata un’esperienza utile anche per loro: capire cosa vuol dire avere accanto una persona che non vede può essere un messaggio costruttivo”.
È nata un’amicizia con Paolo Faragò.
“Paolo è una bellissima persona, un ragazzo molto alla mano, che tiene a questo tipo di situazioni e si rende conto di quanto potenziale ha un messaggio lanciato da un calciatore. È molto bello perché per noi i calciatori sono quella cosa irraggiungibile, un mondo a parte, mentre invece sono persone, partite con tanti sogni dentro uno zaino come Paolo, che sono arrivate a dei livelli molto importanti”.
Nel 2018 hai scritto un libro intitolato il “Vento Contro”, dove lanci, attraverso la tua storia, un grande messaggio di speranza. Sembra quasi che ti senta responsabile di dover lanciare un segnale di positività, un amore autentico per lo sport e la vita.
“Ho iniziato a sentire questa responsabilità quando mi sono accorto che delle cose per me normali, come fare sport 4/5 volte alla settimana, per tanti ragazzi, vedenti e non, non erano scontate. Soprattutto nel campo della cecità i bambini fanno pochissimo sport rispetto a quanto dovrebbero farne e rispetto ai loro coetanei vedenti. Quello che cerco di trasmettere nel libro è l’idea di far riflettere le persone sul fatto che c’è sempre una strada buona, una via d’uscita, anche un piccolo lumicino di fronte ad un percorso che magari ci sembra buio, ingiusto e che non meritiamo. Questo è un messaggio assoluto, tant’è vero che anche il titolo del libro, il Vento Contro, non mette l’accento sul mio problema, perché non sta scritto da nessuna parte che il mio problema sia più grave di altri. Qualunque problema diventa grande nel momento in cui non riusciamo a superarlo, ma qualunque problema può diventare invece un’occasione nel momento in cui scegliamo di trovare delle strade alternative che ci possano gratificare e dare la possibilità di essere felici”.
Hai fondato anche un’associazione che ha l’obiettivo di avvicinare i giovani non vedenti alla pratica sportiva. Cosa ti ha spinto? Per caso si tratta di quel senso di gratitudine per ciò che di positivo hai vissuto e che vuoi trasmettere?
“È proprio così, nel senso che lo sport mi ha dato tantissimo. Non si tratta solo delle medaglie o dei titoli mondiali, ma lo sport è la possibilità di uscire di casa, essere portato a dovermi fare la borsa, interagire con persone che non avevo mai incontrato: lo sport è tutto questo percorso. L’idea di fare un’associazione è quella di restituire agli altri quello che lo sport mi ha dato. Aver ricevuto così tanto mi ha fatto pensare che nel mio piccolo potevo fare anch’io qualcosa. Oltretutto in un contesto della disabilità, ma che in generale riguarda anche tutta la comunità dei ragazzi, dove lo sport non viene visto come uno strumento dalla forte valenza educativa. Basti vedere in Italia come sono ridotte le palestre di molte scuole. È un peccato che lo sport sia relegato a quelle due ore alla settimana quando va bene e se ci sono le strutture idonee. Aggiungo a riguardo una cosa”.
Prego.
“Questa situazione, in cui non si sente parlare di altro se non della ripresa del campionato di calcio, sarebbe il momento giusto in cui anche lo sport iniziasse a rivendicare la sua piena funzione educativa: tira fuori i ragazzi dalle strade, permette di confrontarsi con la sconfitta e con quei rifiuti che la vita in realtà ti propina in qualunque ambito. Oltre al fatto che conoscere il proprio corpo è un valore aggiunto al di là che poi uno diventi un professionista dello sport o faccia tutt’altro nella vita”.
Cosa significa per un ragazzo non vedente affrontare quel pregiudizio di cui spesso ti ho sentito parlare, per cui le persone sono magari portate a pensare o a dire: “Ah poverino Daniele è cieco, questo non lo può fare”? Come si affronta?
“Ci tengo a dire che questo può eventualmente riguardare tante tipologie di situazioni, non solo la disabilità visiva, ma qualunque tipo di disagio, penso alle difficoltà che può avere un bambino di 5 anni che assiste alla separazione dei genitori con strascichi di vita dal punto di vista emozionale, ecco io non so se sia più o meno grave di una disabilità. Detto questo quando c’è una situazione di difficoltà quello che serve intorno a noi è una cultura generale. Il problema non è la disabilità ma la cultura che sta intorno alla disabilità. Lo vivo sulla mia pelle. Se avessi dovuto ascoltare i consigli degli altri, che poi derivano dalla cultura sociale, non avrei fatto tante cose. Molto spesso è perciò la cultura intorno alle persone che determina ciò che una persona può o non può fare. Bisognerebbe creare una cultura nuova con un approccio diverso sia alla disabilità ma anche alle difficoltà che s’incontrano nella vita”.
Qual è infine il tuo sogno, il tuo desiderio?
“Il mio sogno è che nella cultura sportiva e nel mondo dell’educazione si cominci a pensare allo sport come una risorsa, una materia dalla quale tirare fuori tante cose. Come sportivo – oltre alle mie gare che desidero fare e perché no vincere – desidero che nelle prossime competizioni, magari fra 5 o 10 anni, vi sia la partecipazione di tanti ragazzi non vedenti che abbiano un contatto con lo sport non per diventare dei campioni ma per incontrare nuovi amici, misurarsi con se stessi e conquistarsi quell’opportunità di essere felici”.
Matteo Piano