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Joao Pedro: “Dopo Venezia non mi hanno fatto parlare. Nessuno potrà rovinare il mio rapporto con Cagliari” 

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Duecentosettantuno presenze con la maglia del Cagliari, ottantasei gol tra Serie A, B e Coppa Italia, otto stagioni con la maglia rossoblù e due retrocessioni vissute sulla propria pelle, la seconda con la fascia di capitano al braccio. Joao Pedro Geraldino Dos Santos Galvao, per tutti semplicemente Joao Pedro, è arrivato in Sardegna da giovane, è cresciuto come calciatore e come uomo, ha passato periodi bui e soprattutto esaltanti fino a raggiungere anche la maglia azzurra dell’Italia. Non con un lieto fine, tutt’altro. Il brasiliano classe ’92 ha ripercorso diversi momenti della sua esperienza con il Cagliari (e non solo) in una lunga intervista concessa a Cronache di Spogliatoio, della quale vi riportiamo un estratto.

Nazionale
“All’inizio mi è preso un colpo. Avevo la cittadinanza dal 2017, ma non me l’aspettavo. Ero a prendere il caffè con i magazzinieri del Cagliari, poi arriva il nostro diesse, Stefano Capozucca: ‘Guarda, l’Italia mi ha chiesto di te perché hanno saputo che hai il passaporto’. Io non capivo: ‘Ma per cosa?’. E lui: ‘Per convocarti’. Credevo scherzasse, così stavo per andarmene. Ma lui: ‘Fermati, sono serio’. Non era una cosa che mi passava per la testa. Avevo già un legame molto forte con l’Italia, però sono stato colto di sorpresa. Mia moglie e i miei figli sono italiani. Il giorno dopo mi chiamano. L’unico rammarico, oltre che per come sia andata poi la partita, è che passavo il tempo a chiedermi: ‘Merito di essere qui?’. Mi hanno trattato tutti benissimo, conoscevo già i ragazzi perché giocavamo contro ogni domenica. Ma quella cosa mi ha bloccato, non mi ha mai fatto essere lì 100% mentalmente. Per carità, poi non è che non riuscissi ad allenarmi o a giocare, ma era un pensiero che avevo sempre in testa nonostante sentissi il rispetto di tutti per quello che stavo facendo in Serie A. Alla fine, entro all’89’ ancora sullo 0-0 (Playoff contro la Macedonia del Nord per la qualificazione ai Mondiali in Qatar, ndr). C’era molta tensione, la percepivamo tutti. Quando è entrato quel pallone… buio totale”. Nonostante un’occasione capitata proprio sulla testa del brasiliano all’epoca al Cagliari prima del gol della Macedonia: “Non ricordo chi avesse calciato o crossato, ma so di aver detto: ‘Adesso la devio e la metto di lato in rete’. Pensavo di segnare… avrebbe cambiato la nostra storia in quel momento e la mia carriera. Al 100%”.

Venezia
“Lo 0-0 a Venezia all’ultima giornata del 2022? Questa è l’altra partita della mia carriera che avrei voluto rigiocare. Tutta la settimana era stata pesante: c’era molta paura, anche se avevamo provato a caricarci al massimo. Andavamo a Venezia per giocarci la vita o la morte. È difficile da spiegare quella sera… dovevamo segnare solo un gol. Non che sia una cosa così facile, ma neanche impossibile. Avrei voluto fare il gol più brutto della storia in quel momento: un tiro svirgolato, una deviazione, qualcosa. All’intervallo, ci avevano detto che la Salernitana era sotto 3-0 contro l’Udinese. Ci siamo guardati: ‘Dai ragazzi, basta un gol. Non importa come o chi. Una palla’. C’abbiamo provato in ogni modo. La stagione è finita lì, ma la retrocessione non è iniziata quella sera a Venezia”.

Retrocessione e addio
“Il post è stato duro. Avevo e ho ancora oggi la responsabilità di quella squadra. Se è mancato qualcosa, è soprattutto colpa mia. Non solo a livello individuale, ma parlo a livello di capacità di trascinare, guidare e aiutare i compagni. In certi momenti non sono stato capace. È stata un’annata pesante: abbiamo sofferto tutto il tempo. Il silenzio dopo la retrocessione? Non mi hanno fatto parlare. Questo devo dirlo: non voglio che la gente pensi che io non abbia voluto metterci la faccia. Da quel momento, poi, mi sono chiuso tanto. Sono umano anch’io. È stato un colpo duro, un silenzio pesante fino praticamente all’annuncio del mio addio. Non mi pento di nulla, non amo sprecare parole: se dico qualcosa, è perché voglio trasmettere la verità. Capisco che i tifosi lì per lì avrebbero voluto sentire qualcuno… che sarei dovuto essere io! Ho dato veramente tutto quello che avevo a Cagliari: avrei preferito uscire da incapace a livello calcistico piuttosto che come uno che ha abbandonato la squadra in un momento di difficoltà perché non è assolutamente vero. Da fuori possono dire ciò che vogliono, poi basta vedere come ho vissuto ogni partita indossando quella maglia: io e Cagliari abbiamo un rapporto che nessuno potrà mai rovinare. Il finale è stato forse uno dei peggiori possibili, ma da tifoso io direi: sono orgoglioso di avere avuto un calciatore del genere, così attaccato al mio Cagliari. Ho vissuto un terzo della mia vita lì: sono arrivato ragazzino e me ne sono andato uomo e padre di famiglia. Sono stati 8 anni meravigliosi. Anche quando mi accostavano ai top club, io non ci pensavo: negli anni avevo visto gente come Di Natale all’Udinese o Miccoli a Palermo fare molti più gol di me ed essere comunque fra i migliori calciatori della Serie A. Io volevo fare lo stesso: mi aggrappavo a questo”

Doping e squalifica
“Ho avuto tanta paura. All’inizio arrivavano solo notizie su una possibile lunga squalifica. Tutto ciò che provavo a dimostrare andava contro la Procura. Lottavo dentro di me con la sensazione di non aver fatto niente di sbagliato. Ho continuato ad allenarmi da solo, con il mio preparatore. C’erano giorni in cui veniva ad alzarmi dal letto. Io non ce la facevo, non avevo stimoli. Tutta la città mi è stata vicina: dalle signore anziane ai bambini, chiunque provava a darmi forza quando uscivo in strada. Nessuno ha mai dubitato di me né mi ha voltato la faccia. Per chi vive una roba del genere quella è benzina naturale. Non so se da un’altra parte avrei potuto ricevere un trattamento del genere. Ma più che per i 6 mesi in sé, è per il resto: prima di informarmi, studiare e vivere sulla mia pelle questa cosa, io da ignorante mi ero sempre fermato al fatto che questo discorso fosse legato solo a cose brutte, fatte per guadagnarci sopra. È una cosa per cui la tua immagine rimane macchiata. Poco importa che poi dimostri di non aver fatto nulla di sbagliato. Ho avuto davvero troppa paura di smettere. Ricordo di aver giocato 15 minuti a Firenze pochi giorni prima del processo. Il Presidente Giulini e Diego Lopez mi avevano chiesto se ce la facessi a giocare. ‘Certo, ovvio!’. Dentro intanto morivo di paura. Dalla domenica sera al mercoledì ho solo pianto. Nient’altro. Poi sono arrivati i 6 mesi: alla fine avrei saltato solo 3-4 giornate, non finiva la mia carriera. Fossero stati 4 anni, credo non sarebbe stato più fattibile giocare. È difficile tornare a fare bene come se non fosse successo niente. La città e la mia famiglia mi hanno aiutato a riprendermi la mia carriera”.

Ritorno con gol
“La prima partita dopo la squalifica contro il Milan? Sicuramente è stato il momento più bello della mia carriera. Non giocavo una partita da 6 mesi. Puoi allenarti quanto vuoi, ma c’è una differenza pazzesca. Mi avevano chiesto se ce la facessi, e io: ‘Sì, voglio giocare!’. Era da quando ero piccolo che non sentivo lo stomaco sottosopra per una partita. E dopo 3 minuti, gol. Una storia da cinema. Alla prima palla che tocco, con un tiro brutto, neanche l’ho presa benissimo. Pavoletti primo ad abbracciarmi? Non avevo capito come fosse riuscito a prendere quel pallone con una diagonale pazzesca. Sbatte sul palo e rientra: io ho cercato solo di non mandarla fuori dallo stadio. Lì mi sono bloccato. Sembra una cag*ta, ma veramente in testa mi è passato un film: per 30 secondi mi sono spento completamente. Non sono riuscito neanche ad esultare. È stata un’emozione molto grande. Segnare dopo 3 minuti credo sia stato un segnale: ho capito di potermi riprendere la mia carriera e fare ancora meglio.  Segnare più di 40 gol in 3 stagioni in un campionato del genere è tutt’altro che semplice. Non giocavo con Juventus, Inter o Milan. Sono stato uno dei primi a portare un fisioterapista e un preparatore atletico a casa per lavorare anche al di fuori del club: sono cose che ti fanno fare la differenza. Sono stati anni magici. L’allenatore che mi ha cambiato? Maran. Mi ha spostato più avanti e io ho segnato 18 gol. Non ho mai avuto grandi problemi con i mister, ma all’inizio con qualcuno non sono riuscito a prendermi. Io sono un po’ chiuso, fatico ad esternare le mie emozioni”.

Ex compagni
Barella? Era scatenato. È evidente che abbia tantissima qualità, non serve dirlo ma ciò che mi ha sempre stupito è stata la sua cattiveria: in ogni partita, per 90 minuti, lui comunque ci prova. Non è sfacciato, ma quasi… credo sia stato uno dei motivi principali per cui sia arrivato a questo livello. È una cosa che trovi davvero in pochi calciatori. Lo invidiavo tantissimo: non serviva stimolarlo, lui era già così di suo. Era uno che provava di tutto: calciava da centrocampo, tentava la rovesciata di mancino. Robe che io neanche ho mai tentato. A lui non fregava nulla di sbagliare: ci provava. Il compagno con cui ho imparato di più è stato Pavoletti: segnava di testa come un pazzo, in tutti i modi. Con lui sono riuscito a migliorare anche in quel fondamentale. Rendeva facili gol impossibili. Borriello? Non avevamo un gran rapporto fuori dal campo, neanche ci guardavamo in faccia, ma giocare con lui era pazzesco. In campo avevamo un’intesa incredibile. Gli davi qualsiasi pallone e lui lo metteva giù, lo teneva. Calciava di destro e sinistro, colpiva di testa: aveva una mentalità vincente. Così come Bruno Alves e Godin. Vedevo la differente mentalità in loro mentre provavano a trasmettercela. Così come Storari o lo stesso Nainggolan: Radja passava la palla e attaccava la profondità. Io non provavo a saltare nessuno, gliela passavo e mi fiondavo in attacco”.

La Redazione

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