Come falco pellegrino che dopo aver raggiunto con volo faticoso la vetta di una montagna si dimentica di essere predatore e diventa preda. Così la carriera di Fabio Aru, arrivato con smorfie e scatti all’apice della sua vita su due ruote (quella maglia gialla al Tour de France del 2017, che per ogni ciclista è Il traguardo), poi è stata una rapida caduta libera invece che dolce planare.
Battaglia interiore
Tricolore sulla maglia, pugno al cielo e linea d’arrivo a Planches des Belles Filles tagliata per primo, dopo uno scatto dei suoi di quelli che non facevano prigionieri. L’ultima vittoria di Fabio Aru è incredibilmente anche la più iconica della sua carriera. Quello che ha sempre colpito, almeno fino a qualche anno fa, del Cavaliere dei Quattro Mori è la continua lotta tra la fragilità dell’uomo davanti alla fatica e la voglia dell’essere umano di non arrendersi ai propri limiti fisici. Una battaglia che Aru ha combattuto pedalata dopo pedalata per tanti anni, e non a caso alle volte vinceva l’una altre volte vinceva l’altra. Ed erano così o crisi nere o scatti eroici con la strada in pendenza. Un’assenza di equilibrio che lo ha reso un ciclista molto amato nella prima parte della sua vita in sella e poi attaccato e insultato, quando le gambe non giravano più e a vincere è stata sempre e solo la fatica sulla testa dell’uomo. Una cosa che colpì particolarmente chi vi scrive fu l’ultima intervista fatta con Aru, durante il lock-down, all’interno della trasmissione Linea 131. In quel caso in un piacevole viaggio nelle tappe e nelle corse di Fabio il tema della vita quasi insostenibile dei ciclisti tornò ciclicamente. E forse quello era già un primo segnale che la voglia di essere padre, di iniziare una sua nuova vita, aveva tolto qualche pedalata al minuto al corridore. Aveva vinto la fatica, quella che prima o poi vince su tutti. E alla fine la scelta del ritiro va rispettata. Anche perché sofferta ma forse giusta, per Fabio la strada e la sua testa avevano già espresso da tempo la necessità di iniziare un nuovo capitolo.
Cosa ci resta?
“Non è un campione”, “un bollito”, “non è un vincente”. Sono solo alcuni degli attacchi degli ultimi anni a Fabio Aru. Tornati ciclicamente dopo ogni problema del corridore di Villacidro su strada. Aru non sarà un campione, vero, ma al tempo stesso ha tracciato una strada ben visibile, riconoscibile e netta all’interno del desertico panorama ciclistico sardo degli ultimi anni. Fino al 2017, prima della lunga crisi, poi Fabio Aru è stato un ciclista universalmente riconosciuto per saper far divertire il pubblico. Aspetto non da poco nel mondo iper-tecnologico e troppo statico come quello attuale delle due ruote. Se uno senza peli sulla lingua e ultimo tra i romantici come Alberto Contador ti elogia qualcosa vorrà pur dire. Che Aru non sia un vincente è un tema sul quale dibattere. Ha vinto una Vuelta di Spagna, e anche il ritiro avvenuto in terra iberica è un simbolico cerchio che si chiude. Ha indossato il tricolore di campione italiano, ha vestito la maglia gialla in Francia, al Giro d’Italia ha chiuso terzo e secondo. Ha vinto tappe e indossato la maglia di leader in tutti e tre i grandi giri. Si è piazzato sesto alle Olimpiadi di Rio, dove un suo scatto aveva spianato la strada all’oro di Vincenzo Nibali, con lo Squalo poi sfortunato a cadere nell’ultimo tratto in discesa. Curiosamente il punto più doloroso, forse, della sua carriera è sempre in quel benedetto 2017 quando per un infortunio al ginocchio non partecipò al Giro d’Italia che partì da Alghero e dalla sua Sardegna. Insomma, con Fabio Aru è stata una bella ascesa ricca di emozioni, prima di una picchiata dolorosa. Non sono tutte rose e fiori perché qualcosa dopo l’addio all’Astana sarà successo. In UAE è stato per anni tra i ciclisti più pagati senza però dimostrare il suo vero valore. Non solo sfortune e infortuni, gli errori sono stati anche dello stesso Aru. Preparazione, scelte dei ritiri, partecipazione forzata ad alcune corse e rientri lampo eccessivi. Rammarico, ma ora vanno considerati come sbagli di un capitolo chiuso. Restano i pomeriggi sul divano a urlare a “Ajo”, resta lo stupore di quel giovane sardo tra il 2013 e il 2014 quando riuscì a presentarsi da protagonista nelle montagne del Giro, restano i pomeriggi francesi del 2017. Alla fine restano le emozioni, e viene difficile non dire: “Grazie, Fabio”.
Roberto Pinna