L’omaggio del nostro direttore Francesco Aresu a Gigi Riva, autentica leggenda vivente di e del Cagliari, che oggi festeggia i 75 anni.
“Quando in anticipo sul tuo stupore
verranno a chiederti del nostro amore
a quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo tu non darglielo in fretta”.
(Verranno a chiederti del nostro amore, “Storia di un impiegato” 1973)
Si è scritto, detto, raccontato, romanzato tanto sulla vita di Gigi Riva. Per opera di chi ha vissuto quei momenti e ora non c’è più, da chi c’è ancora e da chi non ha avuto quella fortuna. Di poter respirare quell’aria, quella in cui ha regnato l’esempio di un uomo schivo, che ha preferito non piegarsi alla comodità di andare a guadagnare tanto e continuare a gonfiare la rete con maggiore facilità (sotto molteplici aspetti, ça va sans dire) per sposare Cagliari, fiero e orgoglioso come i suoi tanto amati sardi.
Quando chi scrive era un bambino, Gigi Riva era per lui il nome della scuola calcio più celebre della città, con i campi delle Saline come luogo di gioco e di crescita. Quanti cagliaritani hanno calcato quella terra battuta e vestito le divise rossoblù? L’ultimo prodotto di quel vivaio, senz’altro il più riuscito, risponde al nome di Nicolò Barella. Ma questa è un’altra storia. Crescendo, si iniziava a capire qualcosa di più di pallone e aumentava a dismisura la fame di notizie sul Cagliari che in quel momento era l’armata a trazione sudamericana di Mazzone, con Francescoli e Oliveira in attacco, i padroni di casa Matteoli “Arroddugò”, come cantava il Sant’Elia (che, nella versione edulcorata per minorenni, diventava “Facci un gòl”…) e Pusceddu, insieme ai vari Cappioli e Moriero, Firicano e Villa, oltre a Napoli e Festa incontrati – con tanto di autografo – proprio a una festa della Scuola calcio Gigi Riva, annata 1991-92.
E, in quegli anni di domande continue agli adulti (specie allo stadio), le storie di un Cagliari capace di far impallidire Milan, Inter e Juventus diventavano sempre più intriganti, specie per la curiosità di un bimbo di otto anni. Così, alla stessa stregua di proprietà invariantiva e il Sacro romano impero, si studiava anche la storia del Cagliari. “Nonno, ma è vero che il Cagliari ha vinto lo scudetto? Zio, ma chi era Gigi Riva?”. E via con i racconti vissuti, partendo da una vecchia videocassetta “Logos”, dal titolo Gigi Riva e il suo Cagliari. Tanti goal, un mito e uno scudetto, con immagini dalla qualità assolutamente vintage – eufemismo – e con la voce narrante di Nando Martellini. E poi i ritagli di giornale conservati gelosamente in un diario dell’epoca, insieme all’album di figurine dei Calciatori Panini. Datato 1969-70, ovvio. Con le figurine che si attaccavano con la cellina, perché non erano ancora “autoadesive”. Con il formato che oggi, in tempi di storie Instagram, si chiamerebbe 9:16, con nome e cognome del calciatore scritti in verticale.
E quella filastrocca, ripetuta chissà quante volte, come fosse una preghiera o una tabellina. Albertosi, Martiradonna, Zignoli (pausa); Cera, Niccolai, Tomasini (altra pausa); Domenghini, Nenè, Gori (ultima pausa); Greatti, Riva. All’undici, Lui. L’idolo di tutti i tifosi, grandi e piccini. E l’amore di tante ragazze e donne, cagliaritane e non. Quante mamme, nonne, zie di chi legge – e scrive, ovvio – erano innamorate di lui? Di quell’ala sinistra con un carattere tutto particolare, capace di trascinare un popolo a furia di gol? Rombo di Tuono, lo rinominò Gianni Brera in uno dei suoi inarrivabili lampi di genio.
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“E adesso aspetterò domani per avere nostalgia
signora libertà, signorina fantasia
così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza”
(Se ti tagliassero a pezzetti, “L’indiano” 1981)
Fino agli anni del liceo, per chi scrive Riva è stato il numero 11 dell’Italia a Messico ’70, nelle vhs di una serie sulle partite storiche della Nazionale che un quotidiano distribuì in edicola in quegli anni. Ma anche il numero 17 agli Europei ’68, vinti nella doppia finale contro la Jugoslavia. È stato il recordman di gol segnati in azzurro, 35 (in sole 42 presenze, 0,83 gol a partita): come lui nessuno, finora. E chissà se mai l’impresa di superarlo riuscirà a qualcuno. Tutti elementi che, uniti ai primi rudimenti di vera storia, filosofia e letteratura, specie quella greca e latina, accostavano Riva alla stessa stregua di un eroe epico, una figura quasi mitologica. Perché come si potrebbe definire altrimenti un uomo che dice no a tutte le offerte ricevute, a volte anche quelle davvero irrinunciabili? Come spiegarsi i motivi che lo hanno convinto a scegliere di diventare trascinatore di un popolo cui non apparteneva (il passato è d’uopo), di una terra non sua allora forse ancora troppo chiusa nel difendere i propri usi e costumi, in positivo e negativo? In tanti hanno romanzato sul Riva amante dei poveri e dei perdenti, quasi come l’autore della colonna sonora scelta per scrivere questo articolo, ovvero Fabrizio de Andrè. Che scelse di accostare il popolo sardo a quello indiano d’America, tra copertina e tracklist del disco edito subito dopo il sequestro subito. La stessa cultura indiana che riecheggia nel soprannome di Riva, Rombo di Tuono. Così simili, così diversi. Ma, allo stesso tempo, forse i due più sardi tra chi nell’isola c’è arrivato dal Continente. E, soprattutto per questo, legati per sempre alle sorti sportive, culturali, musicali e sociopolitiche della Sardegna. Ed entrambi, per usare una poetica espressione di Faber, abituati a viaggiare in direzione ostinata e contraria…
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Oggi, arrivato quasi a 35 anni di età (come i gol azzurri del Mito), chi scrive vede Gigi Riva come l’ultimo baluardo di un’epoca unica per Cagliari e per il Cagliari. Quel bambino curioso e tifoso rossoblù è cresciuto, coltivando sempre di più il rispetto e la sacralità del Riva uomo, ancora prima che calciatore. Lo stesso che, nei tanti “incroci” tra le vie del centro, ha sempre fatto vincere il pudore. Mai disturbare il Mito, giusto un sorriso educato e riverente. L’animo da giornalista, in questo caso, resta chiuso all’interno, ci mancherebbe. Oggi Gigi Riva compie mezzo secolo e mezzo, ossia 75 anni. Negli anni a Cagliari è diventato padre e nonno, dando ulteriore respiro a una dimensione umana così lontana dallo stereotipo del calciatore moderno, divo a tutti i costi (inutile fare esempi, a questo ci pensi il lettore nella sua testa). Quando vinse lo scudetto aveva solo 25 anni e già 92 gol in Serie A, eppure nella percezione comune era già un uomo fatto, forse anche per la storia familiare non certo facile.
Non andò mai alla Juventus, nonostante i ripetuti corteggiamenti. È restato sempre a Cagliari, di cui è stato anche il presidente a metà degli anni Ottanta. Un’esperienza che, come ci ha raccontato il figlio Nicola, lo ha segnato tanto da fargli dire addio al rossoblù, tanto da restare quasi vent’anni senza mettere piede al Sant’Elia. Fu un addio al campo, ma non certo alla città e alla gente che gli hanno rapito il cuore, in un rapporto di amore reciproco e sincero. Anche da parte nostra: auguri, Gigi.
Francesco Aresu